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lunedì 4 marzo 2013

Romain Gary


Romain Gary, Biglietto scaduto. (Neri Pozza)

In poche parole, un uomo di cinquantanove anni sta con una donna di ventidue, i due si amano ma lui si accorge a poco a poco che non gli tira più come prima e se ne fa un problema che viene risolto in qualche modo, cioè non viene risolto affatto, nel lieto fine che è lieto per modo di dire.
Ovviamente il cinquantanovenne è un imprenditore di successo che ne ha viste e ne ha fatte di tutti i colori, di donne ne ha avute un sacco, è stato sposato e ha un figlio di una trentina d’anni che lavora con lui nella sua azienda. Tutto sommato un quadretto abbastanza scontato, anche se lo svolgimento della storia nel complesso non manca di vicende rocambolesche e gli impotenti senili sono più d’uno.
Ma non si può pensare che si fermi qui uno che come Romain Gary ha scritto sul senso del vivere con una così intensa profondità da poter essere considerato, secondo me, un autore sapienziale, almeno nel senso che dalla sua opera c’è sempre moltissimo da imparare su come siamo fatti e su come vanno le cose tra noi e gli altri.
Cioè come dice Harold Bloom in La saggezza dei libri, la nostra condizione di mortali incombe sempre su di noi e la nostra mente finisce sempre per tornare al suo bisogno di  bellezza, di verità, di comprensione, cercando opere dotate di splendore estetico, vigore intellettuale e saggezza, e secondo me Romain Gary scrive appunto opere di questo genere.
Quindi non aspettiamoci che Romain Gary abbia scritto un libro su quella che egli definisce l’impotenza vesperale così, tanto per sfogare le proprie senili disperazioni nel momento del declino di una vita in cui, sicuramente, da quel punto di vista non si era lasciato mancare niente.
O meglio, di disperazioni senili questo libro è pieno, ma sono disperazioni universali, e non è detto che debbano necessariamente avere inizio nell’età senile. Quel particolare tipo di disperazione di cui si parla anche in La vita davanti a sé e in L'angoscia del re Salomone e che ti può prendere in qualsiasi momento, quando ti rendi conto che la tua vita sono gli anni che ti restano da vivere e, come dice Gary, tutto quello che hai è contato.
Ma al di là delle questioni universali che sono poi anche tremendamente personali, Romain Gary ha scritto una storia che in realtà è una consapevole allegoria della fine dell’Occidente, con uno spalancamento profetico verso un disastro che ai suoi tempi solo una mente straordinaria poteva sentire nell’aria ma che adesso è diventato uno dei gas quotidiani della nostra respirazione.
C’è di tutto, in questo romanzo.
C’è l’incorreggibile stupidità della venerazione del denaro. C’è la fine di una cultura un tempo condivisa, che si va sfaldando nelle mani stesse di coloro che ne dovrebbero essere i portatori e i difensori. C’è soprattutto la profezia della medicalizzazione del quotidiano, che oramai ci impesta dalla mattina alla sera, dalle proposte di prevenire tutto alla pubblicità martellante del bifidus, fino all’incredibile annuncio radiofonico del ristorante pizzeria che vanta la sua pizza fatta con un antichissimo grano egiziano macinato a pietra, molto ecologico e soprattutto adatto anche a chi soffre di intolleranze.
Ma c’è anche il tentativo umano di ricorrere alle risorse della propria interiorità, contrastato da un tecnicismo che nega all’interiorità qualsiasi riconoscimento.
E in un mondo che si globalizza inarrestabilmente, la salvezza per Romain Gary può venire solo dall’unione tra il patrimonio  della nostra tradizione e l’uomo nuovo, che è lo straniero.
Ma dal 1973 è passato un po’ di tempo e sono cambiate tante cose, a Parigi lo straniero non è più tanto straniero, e anche nel resto dell’Europa lo straniero è uno straniero globalizzato.
Staremo a vedere, se alla fine Romain Gary avrà avuto ragione. (bamborino, allemanda)

Ci sono delle sfigatissime cappesante con due p a pag. 74, ma abbiamo un bellissimo otto e mezza a pag. 79 e una stupenda giardinetta invece di station wagon a pag. 169.




La sessualità è una fame. Ed è proprio nella natura della fame il cercare ad ogni costo di soddisfarsi. Più è forte, meno esigente si mostra quanto agli oggetti che la possono saziare. (Denis de Rougemont, L’amore e l’occidente)

mercoledì 8 agosto 2012

Romain Gary


Romain Gary, L’angoscia del re Salomone. (Giuntina)
Come La vita davanti a sé, questo è uno dei romanzi che Romain Gary aveva pubblicato con lo pseudonimo di Émile Ajar, e su questa faccenda dello pseudonimo qui c’è una bellissima postfazione che racconta tutta la storia, bellissima storia, meraviglioso pezzo della storia di un uomo che almeno da un certo punto di vista, questa è una cosa che è sempre da un certo punto di vista, da un certo punto di vista e in un certo senso aveva avuto una vita meravigliosa. Eroe di guerra e della Resistenza francese e carriera diplomatica cioè far niente e prendere un ottimo stipendio, grande scrittore con successo di critica e di vendite e matrimonio con una delle più bombastiche gnocche della storia del cinema che aveva la metà dei suoi anni, aveva avuto una vita che tanti darebbero un braccio e in questo contesto, a casa sua che oltretutto abitava in Place Vendôme, a un certo punto s’è sparato.
Bellissima postfazione che però secondo me la mette troppo sull’ebraismo in senso religioso, va bene che l’editore è Giuntina e va bene che Romain Gary era ebreo ma i contenuti del libro, anche quando si parla di rapporto dell’uomo con Dio, secondo me sono assolutamente universali, e allora se da una parte non ho nessuna difficoltà a riconoscere che da almeno centocinquant’anni gli ebrei sono l’anima del pensiero occidentale, dall’altra non sono così sicuro che questa loro posizione centrale salti fuori dall’andare in giro con i riccioli a cavatappi e dal fare rapare a zero le donne quando si sposano per poi fargli mettere la parrucca, per non dire dei frigoriferi separati per il formaggio e per la carne, e credo che almeno Woody Allen sarebbe d’accordo con me.
Come d’altra parte non credo che le peraltro molto meno frequenti esibizioni di profondità di pensiero di noi gentili vengano dall’andare a Messa o dall’ascolto delle esegesi bibliche televisive della domenica mattina, di cui ricordo un’occasione in cui fummo informati del fatto che il significato simbolico profondo dell’acqua ha a che fare con i lavaggi.
Tenendo tuttavia presente che questa punta di lancia della cultura occidentale che indiscutibilmente sono gli ebrei, la loro potenza di pensiero però l’hanno espressa nelle nostre lingue, perché se si fossero dovuti esprimere in ebraico, lingua inadatta al pensiero analitico in quanto non dotata di un alfabeto con vocali indipendenti come il nostro (vedi Walter Ong, Oralità e scrittura), non lo so se tutta questa potenza riuscivano a tirarla fuori.  
Comunque Romain Gary s’è sparato un anno dopo questo romanzo.
Che è sostanzialmente un  romanzo filosofico e che credo si possa considerare un testamento spirituale.
Trama esilissima e che non vale la pena di raccontare nemmeno per sommi capi, anche perché non è possibile raccontarla in quanto nasce probabilmente dalla coagulazione spontanea dei temi di riflessione esistenziale del romanzo.
Si potrebbe dire che è una storia d’amore, o due storie d’amore di un personaggio, o due storie d’amore incrociate di due personaggi, o due storie d’amore in qualche modo sovrapposte. O potrebbe essere considerato il Bildungsroman del giovane protagonista, o il Bildungsroman degli altri due protagonisti, che sono vecchi. O una storia d’amore corale di tutti i personaggi, l’amore per la vita.
Insomma la trama quasi non c’è, come quasi non c’era nell’altro capolavoro di Émile Ajar, La vita davanti a sé, ma anche qui la lettura è avvincente per non dire travolgente dall’inizio alla fine. E spassosa. Si ride bene e si ride spesso, con personaggi di contorno strepitosi, come il giovane filosofo da strapazzo, Chuck, e il portinaio Tapu, che a molti farà venire in mente subito il tipico tipo del leghista.
Si ride su tutto, ma alla fine non c’è niente da ridere. Perché in uno stile molto vicino ai meravigliosi spericolati equilibrismi linguistici di La vita davanti a sé, qui il tema della morte pervade quasi ogni riga del racconto.
La morte e l'angoscia e con l’angoscia c’è una rabbia di fondo per tutto quello che non va, per il dolore che è parte integrante del vivere di tutti i giorni. Per la sensazione e il pensiero dell'assurdità e della mancanza di senso. Senza che Gary stabilisca una gerarchia di valore o di origine tra queste cose, sempre completamente mescolate una nell'altra.
Ma non solo l’angoscia e la rabbia e il resto. In questo libro, come forse in nessun libro tra quelli che conosco, c’è tanto di quello che si può dire di tutto il bello della vita, di tutta la vita. Anche se non c’è solo l’amore e la giovinezza, ma anche la vecchiaia, la vecchiaia e la morte.
E si parla soprattutto dell’amore. Dell’amore in senso stretto, cioè l’amore di una persona specifica, e in senso lato, cioè il sempre molto difficile amore in generale per i nostri simili.
Anche se l’amore non ci salva dall’angoscia, perché per Gary/Ajar l’angoscia è il substrato continuo ed essenziale di tutta l’esistenza.
Ma ci possiamo ricordare che spesso o forse sempre, come dice il protagonista Jeannot, gli altri sono tutto quello che abbiamo, in mancanza di meglio.
Che secondo me è forse il punto più importante della riflessione esistenziale di questo libro, così importante che Gary la fa passare solo di striscio e in poche righe, come a schermirsi per il peso di questa osservazione.
Ce lo dimentichiamo facilmente, o forse non ci pensiamo mai che le persone che amiamo, le amiamo in mancanza di meglio. E che anche noi, per loro, siamo lì in mancanza di meglio. Che non dobbiamo mai pensare, in questo meraviglioso continuo ripetersi di catastrofi esistenziali che è sempre l’amore, di essere per gli altri il meglio. Siamo quello che c’è, qui e adesso e per questa persona, in mancanza di meglio. Perché l’angoscia della vita, come dice ancora Gary, è la mancanza di tutto, quella nostalgia senza nome di cui parla anche David Foster Wallace. Ma dice Gary, bisogna limitarsi, perché non si può mancare di tutto contemporaneamente. (bamborino)

Solo un e invece di è a pag. 38 e una personale perplessità per la traduzione di Connerie con Fessaggine a proposito del portinaio leghista. Con, tradotto letteralmente, in italiano è coglione, e Coglioneria secondo me ci stava meglio. Segnalo anche che il film dei fratelli Marx al quale si fa riferimento a pag. 49, vero che il titolo originale se non mi sbaglio è Duck Soup ma, sempre se non mi sbaglio, in Italia capita più facilmente di vederlo con il titolo La guerra lampo dei fratelli Marx.
Si nasce in clinica e si muore in ospedale. (Marc Augé, Nonluoghi)

sabato 4 agosto 2012

Romain Gary


Romain Gary, La vita davanti a sé. (Neri Pozza)
Una storia che non sono riuscito a capire che storia è. Romanzo, racconto lunghissimo, Bildungsroman, romanzo filosofico, storia-flusso di coscienza.
Una successione cronologica di fatti è indispensabile per una narrazione, ma qui il tempo passa per modo di dire, è solo il tempo prolungato del momento in cui si smette di essere piccoli e si diventa grandi di colpo e ci si trova davanti la vita. Come capita al protagonista e narratore, che è un ragazzino e che di colpo scopre di essere più vecchio di quel che credeva e poi si lascia dietro il passato attraverso una morte quasi condivisa che potrebbe essere il simbolo del lutto per quello che oramai non potrà mai più tornare ad essere. In mezzo a un’umanità bizzarra e commovente di emarginati che portano il peso della vita senza farsi domande.
Questo capolavoro di Gary si può leggere come inarrivabilmente spassoso e come profondamente triste, e non so trovare un termine di paragone per il suo stile esplosivo, pieno di paradossi e di frasi apparentemente insensate e ridicole che in realtà rivelano la mancanza di senso del mondo e l’assurdità tragicomica in cui tutti siamo costretti a vivere.
E forse tutta la tensione del romanzo si trova nella domanda nelle prime pagine, quando il bambino chiede a un vecchio se si può vivere senza amore, cioè senza essere amati, e il vecchio cerca di non rispondere ma poi gli risponde di sì, e la frase di chiusura, che lascia sospesi tra l’ottimismo e la disperazione. Con la possibile osservazione, che la vita davanti a sé la si vede veramente solo da vecchi, quando si capisce cosa ci si lascia dietro, e si guarda avanti verso qualcosa che solo adesso, verso la fine, si può comprendere fino in fondo. Come dire che anche il protagonista, Momo, in fondo è già un vecchio da sempre.
Per chiudere, chi conosce Walter Ong troverà che il testo è intriso dei modi della cultura orale, innanzitutto nel movimento dell’indescrivibile parlato dello stile, e poi nello svolgimento della trama, che si articola sostanzialmente in episodi, legati gli uni agli altri dal tema fortemente orale del viaggio, o dei viaggi che il protagonista compie girovagando per Parigi. (bamborino, allemanda)
Parlare, non c’è che questo, parlare, vuotarsi, qui come sempre, nient’altro che questo. (Samuel Beckett, Testi per nulla)