mercoledì 27 marzo 2013

Samuel Beckett, David Foster Wallace


Samuel Beckett, Molloy. (SugarCo)

David Foster Wallace, Mister Squishy. (Einaudi)


Qualcosa sulla vicinanza tra Beckett e Wallace, attraverso due opere in cui secondo me si vede più chiaramente questa vicinanza.
Molloy è il primo romanzo della Trilogia di Beckett, Mister Squishy è il racconto che apre Oblio di Wallace.
La vicinanza è innanzitutto una vicinanza stilistica, per quanto non sia continua né in queste specifiche opere, né nell’opera dei due in generale. Ma io non ho trovato nulla di simile in altri autori.
Molloy e Mister Squishy sono due storie in cui il discorso si costruisce a strati. Frasi subentranti, palizzate di dettagli irrilevanti che si piegano uno sull’altro, si intersecano, si fissano una parola dopo l’altra, a costituire una struttura che sembra raccontare e descrivere ma in realtà non racconta e non descrive niente e semplicemente si apre sul vuoto.
Beckett scrive due pagine per raccontare gli spostamenti di quattro gruppi di quattro sassi nelle tasche del mantello e dei pantaloni di Molloy.
Wallace elenca i dettagli dell’abbigliamento dei partecipanti a una riunione in Mister Squishy, o i premi ricevuti dal grande poeta in La morte non è la fine in Brevi interviste con uomini schifosi. Così per entrambi il discorso è sugli oggetti, sui movimenti, sui fatti nudi e crudi.
Ed è in questa vicinanza stilistica che si apre la vicinanza di contenuto. Perché Beckett e Wallace non parlano degli oggetti e dei movimenti e dei fatti, che proprio nel continuo pesante cadenzato martellamento della loro irrilevanza si svuotano di significato.
Il contenuto del discorso non sono gli oggetti i movimenti e i fatti. Il contenuto del discorso è il vuoto che in quanto vuoto non può essere detto e non viene detto, in mezzo alla costruzione strutturale del succedersi delle parole, che non procede lungo una linea dotata di un senso finalistico, ma si va edificando per aggiunte prive di senso.
Si potrebbe dire, forse, con un andamento iterativo anziché ricorsivo.
Così in tutti e due, la trama che sostiene il discorso del vuoto è l’angoscia, quell’angoscia dell’Essere che è il disagio assoluto del vivere contemporaneo. (bamborino)




Niente al mondo è più bello che scrivere. Anche male. Anche in modo da far ridere la gente. L’unica cosa che so è forse questa.
Già che ci sono, piuttosto, vorrei augurare a ogni uomo dopo aver fatto tutti i mestieri del mondo, di arrivare un giorno a scrivere un grosso romanzo (bello o no poco importa: affare suo: semplicemente questione di stella): di impiegarci due anni e anche tre o magari anche un bel pezzo di vita. Ma lo dico sul serio: non ho la minima idea di scherzare. Tutti gli uomini fra i trenta e i quaranta non farebbero male a fermarsi un momento: poi guardarsi e guardare anche gli altri e scrivere un grosso romanzo col più gran numero di personaggi possibili. Ne varrebbe la pena. Moltissime cose, suppongo, e magari anche i soldi e l’amore e il desiderio di vincere e il gelo della delusione non dovrebbero poi avere più una così ossessiva importanza. Forse tutto questo è chiarissimo e neanche c’era bisogno di dirlo: o forse anche no. Mi dispiace. (Silvio D’Arzo, Prefazione a «Nostro lunedì»)

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