sabato 28 gennaio 2017

Joseph Conrad


Joseph Conrad, Victory. (Public Domain)

Sono incappato in Victory leggendo Volcano, una poesia di Derek Walcott.
Che parla della possibilità di smettere di scrivere per seguire the slow-burning signals of the great, non scrivere più e leggere e basta, diventare il più grande lettore del mondo.
E leggendo Victory si capisce come gli sia potuto venire in mente.
Ma per questo si richiede awe, which has been lost to our time. Un’ammirazione religiosa dei capolavori del passato che forse farebbe pensare a tanti che si credono scrittori che potrebbe essere inutile aggiungere le loro miserie alle grandezze di cui già sono piene le librerie. O sarebbero piene, se non le si riempisse di roba che da queste grandezze distoglie, in una furia di tempo buttato via, che è poi tempo di vivere più che tempo di leggere.
Così Victory per me è stato un’avventura esistenziale completa, una precipitazione nei gorghi della possibilità dei fatti e del nostro modo di essere nei fatti, nei sentimenti e nelle emozioni.
Con personaggi che nel loro essere delle esemplari stilizzazioni, quasi perfette e quasi impossibili forme platoniche,  si contorcono nel problema di tutta la grande narrativa, e nel loro essere completamente falsi e assai poco plausibili, diventano modelli veri di una verità esplosiva e destruente, solidi e tangibili come rocce, e complessi e inafferrabili come complessa e nel fondo inafferrabile è solo la verità, e ci aiutano a capire qualcosa degli altri e soprattutto di noi stessi.
Non posso dire di più, di un libro che è vita, pensiero sulla vita, riflessione su quel che ci sembrano e su quel che sono i nostri movimenti interiori ed esteriori, su come le esperienze si costruiscono una sopra l’altra per portare a un risultato che in realtà, come deve essere e non può non essere, non è mai un risultato. (bamborino)

Molto meglio per tutti leggerlo in inglese, che si scoprirà tutta la meraviglia della scrittura di Conrad, che fila via con una levigatezza perfetta, mai una nota più su o più giù, e conferisce alla narrazione un andamento preciso invariabile e acuminato in cui qualsiasi traduzione potrebbe solo inserire sobbalzi abominevoli. Il testo può essere scaricato gratuitamente da Amazon nell’edizione Public Domain, con il Kindle gratuito offerto per tutti i computer, che ha il vantaggio di contenere un dizionario di eccellente potenza, l’Oxford Dictionary of English. Altrimenti lo si può scaricare, sempre a gratis, da www.freeclassicebooks.com.

Great events spring out of small causes. (Elizabeth Gaskell, Cranford)

giovedì 29 gennaio 2015

Yanis Varoufakis


Yanis Varoufakis, Il Minotauro Globale. (Asterios)


Notevolissimo libro sulla crisi economica attuale, notevolmente anche qualcosa di più o meglio parecchio di più.
Innanzitutto è una bella conferma di molto di quel che dicono Jeremy Rifkin in La fine del lavoro e John Kenneth Galbraith in L'economia della truffa, oltre a confermare l’idea già espressa da Niall Ferguson in Ascesa e declino del denaro che tutta la faccenda dei CDO sia stata sostanzialmente una truffa internazionale, aggiungendo l’osservazione che si è trattato oltretutto di un fenomeno nuovo, in quanto invenzione del denaro privato.
Il libro è anche in gran parte, come il libro di Rifkin, una specie di storie economica del XX secolo, ma Varoufakis nel fare una piccola storia della nascita e dello sviluppo del capitalismo parte addirittura dai tempi dei cacciatori-raccoglitori e dall’inizio del problema della gestione delle eccedenze, per andare a finire un passo dopo l’altro nella sostanza di una interessantissima spiegazione del merdaio nel quale ci troviamo.
Cioè Varoufakis dice che a partire dal 1971 le autorità economiche degli Stati Uniti hanno deciso, se non ho capito male, di aumentare intenzionalmente e con generosità sia il deficit di bilancio dello stato sia il deficit commerciale dell’economia americana, facendo pagare il conto al resto del mondo. Una cosa del tipo, sempre se non ho capito male, che gli altri producono, gli Stati Uniti comprano a tutto spiano e pagano in dollari, e i dollari che gli altri hanno guadagnato tornano a casa sotto forma di investimenti a Wall Street e acquisti di titoli di stato americani.
Durante la lettura, non sempre facile lettura almeno per me, avremo imparato che la vittoria di Mao Tse Tung sconvolse i piani americani di fare della Cina il mercato delle merci giapponesi, che la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, la CECA, primo embrione della UE, non è stata un’idea degli europei ma era stata voluta e spinta dagli USA per i loro interessi, ci tornerà in mente la crisi del petrolio e impareremo come mai l’aumento dei prezzi del greggio, che viene pagato in dollari, era andato benissimo agli americani.
E impareremo tante altre cose, dalla fine del Gold Exchange Standard, la parità delle monete con l’oro, agli accordi di Bretton-Woods, a quel che è successo con la crisi del debito del Terzo Mondo, e chi più ne ha più ne metta, fino a come vedeva le cose John Maynard Keynes, e ci sarà spiegato molto bene come la teoria della percolazione, per cui se i ricchi sono sempre più ricchi spendono di più e quindi i poveri se ne avvantaggiano, sia una scemenza completa perché i ricchi sempre più ricchi non spendono niente di più ma investono sempre di più in derivati, ma è sostanzialmente impossibile, almeno per uno come me, riassumere e nemmeno tratteggiare decentemente il contenuto di un libro come questo.
Poi ci sono le proposte di Varoufakis per uscire dal merdaio, e ovviamente non sono in grado di giudicarle, ma credo che sarebbe una buona cosa per tutti almeno sapere di più e farci sopra qualche pensiero.
Il libro io l’avevo letto un paio d’anni fa, e c’avevo lì questo post già pronto e non l’avevo messo fuori perché mi sembrava, e mi sembra ancora, una porcheria, ma adesso Yanis Varoufakis è diventato il ministro dell’Economia del nuovo governo della Grecia e così sono doppiamente contento, per lui e per me che posso mettere fuori subito il post e speriamo in bene. (saposcat)
 
Dal punto di vista editoriale, se riconosco ad Asterios il grandissimo merito di avermi fatto leggere questo libro meraviglioso, non posso tacere della ricca accazzaglia (sic) di refusi e di errori di grammatica e di sintassi che lardellano il testo, né della incredibile mancanza di un indice analitico, fondamentale in un libro di questo genere.




La verità di una storia non dipende dalla sua correlazione con la realtà ma dal suo senso morale. (Christos Ikonomou, Qualcosa capiterà, vedrai)

martedì 23 dicembre 2014

William H. Gass


William Howard Gass, Prigionieri del paradiso. (minimum fax)

Per la prima volta su questi schermi, data l’eccezionalità del fatto rilevato, si comincia il post con le note editoriali.
Perché minimum fax è un editore magnifico e meritevole, ma mi sa che qui ci troviamo di fronte ad una vera opera di poteri occulti e forse il pesante cambiamento del titolo Omensetter’s Luck nella traduzione italiana ha portato il romanzo a maledire l’editore, anche se questa volta non è tutta colpa sua, ma finalmente è stato punito per il malvezzo di lasciare i titoli originali privandoli di un articolo, come ha fatto per The Easter Parade di Richard Yates diventato Easter Parade e per A Walk on the Wild Side di Nelson Algren diventato Walk on the wild side e The Magic Kingdom di Stanley Elkin diventato Magic Kingdom. E per la prima volta da quando leggo libri di minimum fax qui ho trovato due refusi 2, dala invece di dalla a pag. 69 e proprio invece di propria a pag. 273.
Ma il demone del libro non si è accontentato.
E così, almeno per quello che mi sembra, se mi posso permettere di dire la mia da povero ignorante quale sono, il demone ha esteso la maledizione fino alle pagine da 7 a 14, in cui Tommaso Pincio ci parla del romanzo. Facendo smemorare l’eccellente prefatore, che solo dal nom de plume si capisce che è well-acquainted con la narrativa americana che più meglio  (rafforzativo) acquainted non si potrebbe, e strappandogli via dalla mente ogni possibile riferimento del romanzo di Gass a William Faulkner, mentre gli consente di strizzare l’occhio al lettore anche lui well-acquainted, a me mi (a me mi, altro rafforzativo) ha strizzato le palle, ma il lettore che la sa lunga si sentirà di certo tutto rinfighito per quel che Pincio gli dice di Raymond Carver, come se ne parlasse a una ristrettissima conventicola di sapienti, o saccenti. Riferimento che doverosamente viene fatto in quarta di copertina. Ma forse Tommaso Pincio voleva giustamente ben guardarsi dal dire scontate ovvietà, uno come lui che conosce anche Cartesio.
Ma ancora il demone del libro, crudele vendicativo demone, non si è accontentato.
E così ha strappato via dalla memoria o dalla consapevolezza di Tommaso Pincio non solo William Faulkner, ma anche tutto quello che succede in Prigionieri del paradiso a partire da pag. 307. Quando la fortuna di Omensetter di cui al titolo originale, rapidamente e drammaticamente finisce, facendoci pensare che il titolo probabilmente è sarcastico.
In modo che la prefazione si chiude lasciandoci preparati a leggere una storia di approfondimenti psicologici che in realtà per trecento pagine accorda gli strumenti in vista del concerto della catastrofe finale, che cambia tutto anche dal punto di vista stilistico.
Ma forse il demone non c’entra, e lungi da noi credere che né Tommaso Pincio né alcun altro in minimum fax abbia letto il romanzo fino alla fine, penseremo che non abbiano voluto mettere dello spoiler, come si dice oggidì, e così si è scritto che a Gilean si è prigionieri di un paradiso di parole, e ci hanno lasciato la sorpresa del finale.
Comunque difficilmente si poteva trovare una parola meno adatta di paradiso per riferirsi a Gilean, immaginaria cittadina rurale sule rive dell’Ohio, e il romanzo di William Gass non è affatto paradisiaco nemmeno per il lettore.
Cioè, è una bella fatica.
Ma bella non solo nel senso di fatica cospicua ma anche nel senso di fatica di quel tipo entusiasmante che spesso dà la grande letteratura del Novecento. Vedi appunto William Faulkner, che nel blog c’è qualcosa.
Questo romanzo di William Gass sembra scritto apposta per mostrare il senso profondo della simultaneità e della frammentazione della percezione della realtà dei nostri tempi, e della ricomparsa nella percezione moderna delle modalità tattili caratteristiche dell’oralità (vedi come al solito Marshall McLuhan) che qui si accompagnano alla modalità visiva, per esempio nella scena in cui il reverendo Jethro Furber, in treno, guarda l’ombra della sua mano accarezzare una donna che gli sta seduta vicino. E tutta la prima parte del romanzo è fatta di dettagli insignificanti e staccati e di spostamenti continui tra il ricordo e il momento attuale, per arrivare all’esplosione di simultaneità del pranzo di accoglimento nella città del reverendo Furber, in cui egli ci porta dall’osservazione del momento presente al viaggio in treno al ricordo della sua infanzia e al momento in cui ha deciso di diventare sacerdote, oggetti e persone che subentrano gli uni agli altri e si infilano gli uni negli altri.
Tutto in uno stile di descrizioni rapide e di particolari che scoppiano di luci e di suoni, una scrittura in cui la parola risplende in una maniera che si potrebbe forse definire magica.
Jethro Furber, un titano della solitudine, è il vero centro del romanzo, un uomo che nella sua vita non ha avuto un attimo che non fosse di tormento, e che per questo odia Brackett Omensetter, al quale sembra che vada tutto sempre bene nella più assoluta semplicità. Tormento erotico, tormento nei rapporti interpersonali, tormento nel rivolgersi ai fedeli, tormento nel paragone con i sacerdoti che l’hanno preceduto a Gilean, tormento nel pregare, tormento interiore in tutto.
Fino a quando il figlio maschio di Omensetter, un bambino nato da poco, si ammala. Da qui si corre verso il finale e improvvisamente lo stile cambia. Di colpo il tempo del racconto non è più disgregato e simultaneo ma diventa ordinato e consecutivo. Le meravigliose immagini fatate scompaiono e si passa a una narrazione asciutta e diretta, nel disastro che va verso una fine assurda, un’impiccagione inverosimile, un suicidio o un omicidio che non ha senso in nessuno dei modi in cui lo si potrebbe considerare.
E poi basta. Il romanzo si chiude in una specie di ricomposizione che non ricompone niente. La fortuna di Omensetter, sì, a Gilean ne parlano anche, di questa fortuna, ma ci vuole una vita intera per vedere cos’è, appunto nella vita, la fortuna.
Evitando lo spoiler, si può dire che a Gilean va tutto avanti come prima, ma con il segno di una ferita.
Ma la ferita c’era fin dall’inizio, perché il romanzo in realtà era cominciato con un disastro, e con un uomo che cercava di darsi un senso in una condizione in cui comunque si sentiva completamente fuori posto. (bamborino)

By the way, Prigionieri del paradiso è messo da David Foster Wallace, tra i Non pervenuti: cinque romanzi americani spaventosamente sottovalutati > 1960, uno dei saggi raccolti in Di carne e di nulla (Einaudi), e Wallace dice che fa il paio con Wittgenstein’s Mistress di David Markson come miglior libro americano di tutti i tempi sulla solitudine umana.




Chi dice uomo dice linguaggio, e chi dice linguaggio dice società. (Claude Lévi-Srauss, Tristi Tropici)