domenica 28 ottobre 2012

Michael Herr


Michael Herr, Dispacci. (Alet) 

Forse il libro più pesante della mia vita.
Pesante di pioggia di fango di paura di sporcizia e di fatica. Pesante di quel senso di stupidità e di palpabile incomprensibilità della guerra che c’è in Viaggio al termine della notte, stupidità del vivere che diventa la stupidità del morire.
Non si può dire che è un romanzo, non si può dire che è un libro di Storia vissuta. Non si può dire niente. Si può solo aprire il libro e cominciare, e poi aspettare tutte le sere che venga quel momento silenzioso, quando la giornata è finita, e si è pronti a partire per il Vietnam. Nel rumore delle pale degli elicotteri, nel caldo della giungla, nella polvere delle città, nel grigio delle macerie, negli schianti delle esplosioni. Facce, parole, persone, gesti.
La narrazione non è una narrazione, è un insieme di suoni e di luci, di sensazioni, di emozioni, di colori e di odori. La guerra che ti salta addosso e ti porta via tutte le sere. Le battaglie come quelle di Guerra e pace, un casino spaventoso in cui nessuno capisce niente, ci si muove e ci si nasconde, si aspetta, si muore. La narrazione che non è una narrazione, è un insieme di grumi densi uno dopo l’altro e uno dentro l’altro, collegati tra di loro eppure separati dagli intervalli della più completa mancanza di un senso che tenga insieme le cose e le persone. O la narrazione che diventa un vento forte che ti sbatte da tutte le parti.
Una lettura densa, di parole pesanti che formano immagini che nella testa si fermano a prendere lo spessore di oggetti. Uno stile che è di più di uno stile, uno stile che è materia e carne, sangue e ossa. Uno spessore che è quello del disastro delle esistenze che si attraversano leggendo, spessore forte dentro la trama ghignante dell’assurdità e della stupidità che avvolge tutto. Nel disordine che è il disordine bestiale della guerra, che Herr è riuscito non a ordinare e nemmeno a raccontare, ma a mostrare, a far vedere e a far sentire e a far vivere in un compiuto solido spessore. Uno spessore che mi attraversava a un punto tale che ho avuto bisogno di trovarmi anche un’altra lettura più morbida per riposarmi, per respirare lontano dall’odore del napalm e dalla puzza dei cadaveri.
Céline e Tolstoj mi sono venuti in mente mentre leggevo, e dopo che avevo finito, quando ho chiuso il libro e ho continuato per qualche giorno a sentirmelo dentro con tutto il suo peso e tutta la sua solidità di terra e di metallo, mi sono venute in mente altre storie e altre guerre che avevo letto. Mi è venuto in mente Beppe Fenoglio, ma lasciamo perdere. (bamborino)

Quanto al prodotto editoriale, come al solito per Alet, è uno dei libri più belli che mi siano capitati in mano. Bello l’oggetto, perfetto nella dimensione, nel peso, nei colori. Perfetta la carta e bellissima la copertina, bellissima fuori e bellissima dentro.




Non è vero che si conosce meglio una persona soltanto perché si divide con lei lo stesso letto e lo stesso bagno. (John O’Hara, Appuntamento a Samarra)

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