domenica 30 giugno 2013

Henry Roth


Henry Roth, Chiamalo sonno. (Garzanti)

Una domenica mattina.
Qualcuno suonava una tromba, probabilmente sul piazzale della chiesa qui vicino, per tirar su qualche soldo dalla gente che va a Messa.
Poi si sentono le campane, mentre sto parlando al telefono. Che bello le campane, mi dice chi sta parlando con me. Nell’aria di primavera ancora fresca.
E nella mattina che diventa sempre più luminosa mi è tornato in mente questo romanzo che ho letto quasi dieci anni fa.
Perché Chiamalo sonno è così.
Un momento di calma e di freschezza leggera e un po’ triste che si può trovare tutte le volte che si apre il libro e ci si mette a leggere.
Anche se è una storia dura. Durissima e pesante. La storia di un bambino che comincia a crescere a New York agli inizi del Novecento nel quartiere degli ebrei immigrati. La scoperta della vita, dei misteri che ci sono negli oggetti e nelle persone.
La storia scialba della zia, la storia drammatica della madre, il padre oscuro e lontano, gli altri bambini, la scuola, le strade, i cortili.
Il libro si apre, ci scivola nella testa e ci sale dentro come l’acqua in un serbatoio, il livello si alza fino a che diventiamo David e viviamo con lui.
E come lui ci rendiamo conto che i rubinetti del lavandino sono sempre stati troppo in alto per noi. (moll)




La storia della vita di uno è uguale a quello che ha più quello che desidera più di tutto al mondo, meno quello che è davvero disposto a sacrificare per ottenerlo. Se di una persona riesci a sapere queste cose, saprai quasi tutto. (Craig Clevenger, Manuale del contorsionista)

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