lunedì 16 aprile 2012

Fëdor Dostoevskij, René Girard

Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov. (Einaudi)
René Girard, Dostoevskij dal doppio all’unità. (SE)
Cominciamo dalla fine, cioè dal saggio di Sigmund Freud che chiude il volume, Dostoevskij e il parricidio. Se non si può non riconoscere a Freud il merito particolare di segnalare giustamente in questo saggio la natura di sintomo isterico dell’epilessia di Dostoevskij e il merito generale di essersi adoperato per dare nuovo vigore alla pratica della confessione, è difficile passare sotto silenzio la sua ridicola presa di posizione etica nei confronti dello scrittore, al quale appioppa una predisposizione pulsionale perversa che doveva renderlo proclive al sadomasochismo o alla delinquenza, cui fa seguito verso il finale l’affermazione che la simpatia di Dostoevskij per il criminale è in effetti senza limiti.
Se ci si domanda da dove gli siano venute (a Freud) simili idee, si può forse trovare una risposta in un passo del saggio, in cui afferma che non è un caso che tre capolavori della letteratura di tutti i tempi trattino lo stesso tema, il parricidio, cioè l’Edipo re di Sofocle, l’Amleto di Shakespeare e I fratelli Karamazov, aggiungendo che in tutte e tre le opere è messo a nudo anche il motivo del misfatto: la rivalità sessuale per il possesso della donna.
Ora, va bene la difesa a ogni costo della scoperta (o meglio invenzione) del complesso di Edipo (peraltro ampiamente revisionato da René Girard in La violenza e il Sacro), ma non credo che ci sia bisogno di particolari profondità culturali per sapere che Edipo ha ucciso suo padre per caso e senza sapere nemmeno chi fosse, mentre Amleto uccide non suo padre ma suo zio, reo di averglielo ucciso lui, il padre, per sposare sua madre. Quanto poi a I fratelli Karamazov, un’affermazione di questo genere può venire solo dal fatto di non aver letto il romanzo.
Ma Freud non si ferma qui, e chiude in bellezza il saggio affermando che non si conosce un solo caso di nevrosi grave in cui non abbia avuto la sua parte il soddisfacimento autoerotico in età precoce e nella pubertà. Cioè non siamo proprio al livello di dire che a masturbarsi ci si tira fuori il midollo spinale, ma insomma, a fare certe porcherie una bella nevrosi, e grave, non te la leva nessuno.
Viene in mente un contemporaneo di Freud, Georg Groddeck, al quale lo stesso Freud riconosceva di dovere il termine Es, che in quel capolavoro che è Il libro dell’Es (dove senza tirarsela ma nello stile di un libretto quasi comico arriva fino a Melanie Klein e a Wilfred Bion) dice che la masturbazione è la fonte di ogni bene anche in età avanzata.
Passiamo al romanzo.
Torniamo per un momento a Freud, e dico subito che non sono d’accordo con lui e con tutti gli altri che dicono la stessa cosa, quando dice che l’episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale. Secondo me non è nemmeno uno dei vertici di Dostoevski ma trova il suo posto, anche se forse in quest’ambito è il pezzo migliore, nell’incredibile quantità di menate ideologiche e religiose di cui sono piene le sue opere. Ce n’è tanta, in questo romanzo, di roba indimenticabile, praticamente un susseguirsi ininterrotto di intensità subentranti, che con pochissimi momenti di riflusso trascinano verso l’esplosione finale del processo. Che poi, come dice ancora Sigmund Freud, questo sia il romanzo più grandioso che mai sia stato scritto, secondo me è un’affermazione un po’ forte, e bisogna vedere cosa si potrebbe intendere con ciò, perché la stessa cosa, con riferimento alla struttura costruttiva della trama, si potrebbe dire, e certo a maggior ragione, di Orgoglio e pregiudizio. Ma è un fatto che le opere che si possono confrontare con questo romanzo sono ben poche, e che raggiunge spesso profondità di coinvolgimento emotivo che non hanno termini di paragone nella narrativa moderna.
Ci si può domandare il perché di questa marea emozionale, e forse la risposta la dà Harold Bloom, che dice che tra i caratteri di Dostoevskij ci è quasi impossibile trovare delle personalità che abbiano un valore normativo: I fratelli Karamazov è un romanzo dove più che la storia, che peraltro ci prende con una forza tremenda, contano i personaggi, e i loro rapporti di continuo scontro, e i personaggi sono tutti individui titanicamente eccessivi e a loro modo assolutamente fuori da ogni possibilità di regola.
E se questo vale per i personaggi principali, che sono il romanzo, abbiamo poi i personaggi secondari, che costituiscono, praticamente tutti, non solo delle figure di contorno ma dei microromanzi inseriti nel tessuto principale, ciascuno con una storia sua, perfino i meno rilevanti. 
Insomma una sinfonia di persone dall’inizio alla fine, ed è in questa sinfonia di persone che bisogna vedere secondo me l’aspetto più straordinario di quest’opera straordinaria e rivoluzionaria.
Perché il romanzo ha delle fortissime particolarità strutturali che, almeno per l’epoca, direi che possono essere considerate uniche, e che sono un’altra delle tante cose in cui Dostoevskij è stato più avanti di tutti, tranne come ho gia detto nel post su Il sosia, la Emily Brontë, e Cime tempestose ha infatti una struttura molto simile. Cioè I fratelli Karamazov non ha una trama vera e propria, ma è costituito da un insieme di persone e di rapporti tra persone, rapporti di volta in volta sostanzialmente uno a uno, che si addensano nel giro di pochi giorni intorno a un fatto, l’assassinio di Fëdor Pavlovič. In realtà non c’è storia, ma solo questo fatto, e le storie sono quelle di tutti i personaggi, che sono appunto romanzi nel romanzo, e gli danno tutto lo spaventoso movimento che ci travolge fin dalle prime pagine.
Il fatto si prepara, accade, e dopo che è accaduto si ricomincia nella direzione opposta, nel processo in cui la difesa e l’accusa e i testimoni ripercorrono tutta la storia e la mostrano da diversi punti di vista e la commentano: quindi non solo non c’è movimento, ma si ritorna sempre sulla stessa strada, e lo scontro tra le persone si fa ancora più profondo, e il romanzo si ripete, tutti i romanzi di tutti i personaggi si ripetono. Forse la vera grandiosità è questa, che I fratelli Karamazov è il primo romanzo del ripiegamento, e in una struttura temporale apparentemente consueta spalanca la possibilità delle chiusure ripetitive di Samuel Beckett.
Tuttavia Harold Bloom in Il genio, nel riconoscerne la grandezza, copre Dostoevskij di insulti politico-religiosi e dice apertamente, del finale del romanzo, che lo trova incredibilmente brutto. E questo è il punto.
Perché non sono pochi i lettori che nel riconoscere a Dostoevskij una ineguagliabile potenza narrativa, fanno fatica a non trovare ridicole le sue tirate religiose e moralistiche: viene in mente Oscar Wilde, che diceva che solo un cuore di pietra poteva leggere la morte della piccola Nell di La bottega dell’antiquario senza sganasciarsi dal ridere, e secondo me il finale di I fratelli Karamazov non è da meno. Anzi, tutta la storia del povero bambino ammalato è decisamente ridicola, con il padre alcolista, la madre pazza e una sorella paralizzata. Di più, questa del ragazzino è in realtà l’unica vera trama che c’è nel romanzo, con un suo procedere di fatti ordinati verso un finale, e mentre nel resto dell’opera i personaggi principali sono, come è caratteristico del romanzo moderno, delle brutte persone, degli stronzi o sostanzialmente come si suol molto malamente dire, dei perdenti, qui c’è una meravigliosa tensione di tutti verso elevati valori spirituali e verso il buonismo più sgangherato: lo stesso Alësa è ben diverso qui, proiettato verso le certezze del Bene, da come è quando si trova lontano dalla catapecchia della famiglia degli sfigati, molto più dubbioso e tormentato, e tutta la storia, diversa com’è dal resto dell’opera, non ha alcun rapporto con gli altri avvenimenti, e potrebbe tranquillamente essere sputata fuori dal romanzo, e il romanzo sarebbe assolutamente identico. Per non dire molto più bello, se poi la fine fosse stata la scena nella clinica, sulle parole che Katja dice ad Alësa: “Lasciamo da parte queste cose”.
Quindi il problema è, come è possibile che un narratore di quest’altezza abbia incastonato tali obbrobri da boy-scout (sempre Harold Bloom) nel suo romanzo più bello, oltretutto operando una profonda distinzione stilistica e strutturale con il resto dell’opera.
Una parentesi intertestuale, sulla presenza del Diavolo nella letteratura. Cioè Alësa, nel finale della scena del Grande Inquisitore, si attarda a seguire con lo sguardo Ivan che si allontana e si accorge, per la prima volta, che la spalla destra del fratello sembra più bassa della sinistra: c’è in un altro grande romanzo un altro personaggio diabolico, dotato della stessa caratteristica anche se non si specifica qual è la spalla più bassa. Quindi lancio un concorso a premi senza premi tra i frequentatori del blog.
E dopo la parentesi, René Girard.

Che stabilisce con quest’opera la base del lavoro che lo porterà a quello studio grandioso sulla perdita della trascendenza e sulle condizioni sociali della modernità che è Menzogna romantica e verità romanzesca, vedendo l’inizio dell’assunzione di prerogative divine da parte dell’individualismo occidentale a partire dal pensiero di Descartes. Individualismo occidentale di cui Marshall McLuhan troverà le ragioni nell’invenzione della tipografia a caratteri mobili.
Ma l’individualismo non può prescindere dalla presenza dell’Altro, forse anche per la forza interiore che possiede la nostra ancestrale tendenza alla rivalità mimetica, la cui scoperta porterà René Girard al suo terzo grandioso lavoro, La violenza e il Sacro, e così in Dostoevskij dal doppio all’unità egli delinea attraverso lo studio dell’opera di questo grande scrittore la comparsa nel pensiero e soprattutto nella pratica dell’esistenza quotidiana della tensione continua del rapporto di rivalità e di sadismo e masochismo dell’uomo occidentale nella continua scissione tra Io e l’Altro, tensione che porterà alla comparsa della letteratura dell’angoscia e della narrativa oggettiva e soggettiva, e che sarà espressa e precisamente delineata in Menzogna romantica e verità romanzesca.

Qui René Girard ci racconta e ci mostra come Dostoevskij, di opera in opera, si sia venuto costruendo non solo come scrittore ma soprattutto come uomo, e qui viene in mente ancora Oscar Wilde, che se non mi ricordo male ha detto che il vero capolavoro di un artista è la sua vita.
René Girard ci conduce attraverso la vita di Dostoevskij e ci fa vedere il rapporto strettissimo tra il suo scrivere e il suo vivere, e come il suo scrivere sia un viaggio attraverso la sua anima, attraverso la fatica di vivere e di realizzare sé stesso di un uomo terribilmente problematico e profondamente sofferente, in un percorso che si svela gradualmente e lo porta verso la fine di una ricerca che si sviluppa di opera in opera.
E con René Girard riusciamo a capire anche il mistero del suo capolavoro, in cui ottiene il risultato finale sia come narratore che come anima tormentata. Alla vetta narrativa corrisponde quella che per Dostoevskij è la vetta dello spirito, che egli incarna nella storia di Alësa e del ragazzino, e che incastona nel romanzo, proprio per questo, come un gioiello a sé stante.
Sperando di non strafare, devo dire che alla luce di Menzogna romantica e verità romanzesca l’Interpretazione di I fratelli Karamazov secondo me potrebbe essere diversa da quella che ne dà qui René Girard, poiché penso che tutta la faccenda del rapporto tra il padre e i figli si possa far risalire a un rapporto di rivalità triangolare piuttosto che a specifiche problematiche personali, e anzi credo che alla base di questo rapporto tormentato tra Dimitrij Fëdorovič e Fëdor Pavlovič ci sia la difficoltà della risoluzione della particolare condizione di ambiguità creatasi tra la mediazione esterna e la mediazione interna vissute dal figlio nei confronti del padre, e se questo è vero per Dimitrij, forse è ancora più profondamente vero per Ivan.


La lettura di questo fondamentale testo di Girard è facile, breve ed entusiasmante. E oltre ad essere utilissima per tutti quelli che amano Dostoevskij senza riserve, sarà indispensabile per tutti quelli che sono regolarmente rimasti affascinati dalla sua grandezza narrativa ma avrebbero gettato il libro fuori dalla finestra tutte le volte che si dovevano mandar giù le sue insopportabili prediche sulla grandezza dello spirito del popolo russo eccetera.
Dopo René Girard, la lettura di Dostoevskij prende una prospettiva diversa, si capisce e si perdona tutto, ci si spiega come mai quello che è probabilmente l’unico solido scopatore non problematico dei romanzi di Dostoevskij, Fëdor Pavlovič Karamazov, debba finire con la testa fracassata e, se mi si perdona un’intemperanza personale, anche l’insopportabile cretino di Memorie del sottosuolo si rialza con la statura di un gigante. (bamborino)
Per quel che riguarda Einaudi, dopo una lode per l’uso di famigliare quando ci si riferisce alla famiglia e familiare quando si vuol dire consueto, apriamo le danze con un affloscito a pag. 91 e troviamo un orribile quanto facilmente evitabile disferebbe, che a scrivere disfarebbe non ci voleva proprio niente, e che danza in coppia con un altrettanto facilmente evitabile soddisferà a pag. 610 e a pag. 851 e con un soddisferai a pag. 999, mentre il rinvangarono di pag. 631 si accoppia con un rinvangato a pag. 877. A pag. 183 si consiglia di spruzzare dell’acqua con la bocca ma mi sa che era meglio una brocca, a pag. 221 compare un simpatico apicultore, che probabilmente è uno che invece di allevare le api come farebbe un apicoltore ha invece il culto di questi insetti. C’è poi il termine arringa usato per il discorso di accusa in tribunale che sarebbe meglio chiamare requisitoria, l’arringa è quella della difesa, ma dicono così anche alla tele. Comunque a pag. 117 c’è il solito gli al posto di le, ma oramai si fa così dappertutto, anche al bar quando si parla di calcio e mi dicono che anche dalla parrucchiera, e poi c’è il qual con l’apostrofo quasi dappertutto, tranne a pag. 722 dove troviamo finalmente qual è. Concludo con qualche nota comica, che parte dal quasi più difficile a pag. 217, che quasi più non ho mai capito che cosa vuol dire, se una cosa è quasi più di un’altra, mi sa che sostanzialmente vuol dire che è uguale, e allora perché non dire uguale. Le note comiche proseguono con le rificolone a pag. 161 e le cioce a pag. 168. Ovvero si scopre che nella Russia dell’Ottocento fervevano attività commerciali di importazione dall’Italia centro-meridionale di ogni sorta di oggetti, perché le rificole sono, secondo il Devoto-Oli, lampioncini di carta, modellati nelle fogge più bizzarre, che i fiorentini portano in giro per la città la sera del 7 settembre, vigilia della Natività di Maria Vergine, cantando canzoni e ritornelli: da rilevare che nel testo la parola è usata in senso metaforico, riferita a due donne, e quindi mostrerebbe, se ci fosse nell’originale, una grande dimestichezza dei russi con le tradizioni del nostro Paese. Quanto alle cioce, sempre il Devoto-Oli le definisce calzare rustico formato da un sol pezzo di cuoio, fermato al piede per mezzo di corregge che s’intrecciano alla parte inferiore della gamba, tipico della Ciociaria e dei territori contermini dell’Abruzzo e della Campania.
Per SE, come al solito niente da dire.
Ci sono degli psichiatri che non sono mai stati amati in gioventù o che si sono sempre sentiti sfigati e respinti e che si rifanno diventando psichiatri e si occupano dei giovani drogati e dei poveri disgraziati e si sentono importanti e sono molto ricercati, regnano, sono circondati da ammirazione e da belle ragazze che altrimenti non avrebbero mai conosciuto e hanno così un senso di potenza ed è così che curano sé stessi e si sentono meglio nella propria pelle. (Romain Gary, L’angoscia del re Salomone)

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