domenica 20 novembre 2011

Jonathan Littell

Jonathan Littell, Le Benevole. (Einaudi)

Come è andata a finire la seconda guerra mondiale lo sappiamo tutti e sappiamo anche com’è andata a finire la battaglia di Stalingrado, e in questo romanzo Max Aue, protagonista e narratore, prima ci butta addosso la guerra riassumendola in una mitraglia di cifre e poi ci dice subito come va a finire la sua storia personale di ufficiale delle SS che riesce a farla franca, e ci racconta subito anche come ha fatto a salvare la pelle e a rifarsi una nuova identità.
Ma come nei telefilm del tenente Colombo e nel capolavoro di Truman Capote A sangue freddo, anche qui conoscere già la storia non fa che mettere una gran voglia di sapere come è successo quel che è successo e di vederselo succedere davanti, e in questo caso davanti vuol dire più di novecento pagine di bellezza raramente interrotta.
Littell è un narratore entusiasmante che avvolge gli avvenimenti in descrizioni d’ambiente meravigliose, di quelle che sembra di sentire anche gli odori che vengon su dalla pagina, con una capacità straordinaria di comunicare i rumori e tra i rumori dosare e far sentire persino la luce.
E non c’è solo la guerra, i massacri, i bombardamenti, gli aerei e le case che esplodono, la carne dei morti e dei feriti. C’è la camera in affitto, la passeggiata, i ristoranti, le conversazioni, e i personaggi sono tutti nettissimi. La stregoneria di Littell arriva a fare narrazioni travolgenti anche delle riunioni delle SS e delle discussioni tecniche sull’organizzazione delle spedizioni e dei campi di lavoro.
Al di là della bellezza, si deve tenere presente che Le Benevole è un libro forte, molto forte, e bisogna prepararsi a sentire raccontare con intensità quello che hanno fatto i tedeschi durante la guerra, uccidendo nel nome della grandezza del loro Volk decine di migliaia di persone una ad una, e facendone morire altre centinaia di migliaia letteralmente di fame di botte e di lavoro e letteralmente nella merda, una merda che mentre leggi ci cammini dentro e la senti sotto i piedi e nel naso, come senti la puzza dei cadaveri e il sangue dei feriti, e quasi vomiti come il narratore.
Lungo tutto questo, la storia personale di Max Aue e della sua carriera fino ad Obersturmbannfϋhrer, che da un’infanzia non dimenticata si trascina dietro il peso di un dolore torbido e malato e che dà luogo a una lunga parentesi di erotismo onirico e ancora pieno di sangue e di escrementi. La tensione narrativa ha anche alcuni momenti di piccole danzanti confusioni surrealiste che nel finale non mancano di una loro vis comica kafkiana e fanno pensare che l’obiettivo dell’Autore non fosse tanto quello dichiarato all’inizio, di porre la fatidica domanda, cosa avreste fatto voi nelle stesse circostanze, ma di porre piuttosto il problema di cosa, nella storia di un uomo, ne condiziona il comportamento, e di come si possa conoscere veramente e capire il perché di quel che fa un uomo, senza sapere tutto della sua vita. E sapere tutto di una vita non è mai possibile, anche se questo non libera nessuno dalle proprie responsabilità.
Per quanto riguarda la precisione storica e le fonti, almeno per quanto riguarda la questione dello sterminio degli ebrei, mi sembra di aver riconosciuto qualcosa di opere come In quelle tenebre di Gitta Sereny, da cui peraltro Littell pesca il dettaglio meno verosimile, del libro di Goldhagen I volonterosi carnefici di Hitler e ovviamente dell’indiscutibile opera di Hilberg, con il quale riconosce la dimenticata posizione dei fascisti che avevano fatto dell’Italia, fino al settembre 1943, un rifugio sicuro per gli ebrei di tutta l’Europa. E aggiungo una piccolezza sorprendente in un Autore così attento, che a un certo punto Max Aue si siede sotto un pino, con la schiena appoggiata al tronco, e dice di non essere infastidito dall’erba che gli bagna i pantaloni, e stupisce che Littell non si sia mai accorto che sotto le conifere, se non mi sbaglio per l’acidità conferita al terreno dalla caduta degli aghi, di erba non ce n’è mai, e un po’ più in là ricompaiono i pini, che adesso si piegano come a formare le volte di una cattedrale. Boh. Forse in Germania e dintorni ci sono dei pini straordinari, forse anche qui Littell ha voglia di scherzare. (blifil)
Siamo fatti per questo. Per resistere e arrivare fino alla fine. È così che veniamo a sapere chi siamo. (Tobias Wolff, Nell’esercito del faraone)

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