martedì 15 novembre 2011

René Girard

René Girard, Anoressia e desiderio mimetico. (Lindau)

Da sempre le psicologie si sentono troppo strette nella pozzanghera delle loro normatività pesudoscientifiche (vedi Michel Foucault, Sorvegliare e punire) fondate sull’applicazione all’uomo di test che riguardano solo attitudini astratte (vedi Maurice Merleau-Ponty, Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche). E quindi ben armate della miseria generalizzata della balbuzie postfreudiana e della prosopopea cognitivo-computazionale intelligenzartificialistica, si sono avventurate spavalde negli oceani dello studio della mente cosiddetta sana e cosiddetta patologica.
L’umanità ha così avuto accesso ad un letamaio di nuovo genere, in cui ha potuto scoprire che i giochi dello sviluppo dell’individuo e del suo pensiero non solo si limitano alle modestie riduzioniste di ragionamenti ricorsivi di tipo logicomatematico, ma sono già completamente e irrevocabilmente fatti nel tempo breve dei primi anni di vita e nello spazio circoscritto dalle pareti domestiche, se non addirittura dalle braccia amorevoli della mamma.
Intanto la neurofisiologia e soprattutto la filosofia e la letteratura hanno continuato a fare il lavoro che hanno sempre fatto, mentre la coscienza e il pensiero insistono nel rimanere ontologicamente soggettivi e irriducibili a fenomeni in terza persona (vedi John R. Searle, Mente, linguaggio, società, ma l’aveva già detto Kant) e la condizione umana mantiene un’ambiguità (vedi sempre Merleau-Ponty, ma si poteva già capire anche da Hegel) da cui restano inderogabilmente esenti le macchine.
Così René Girard ci dà in questo testo una prova di ampiezza di pensiero che, per quanto ciò possa sembrare assurdo a uno psicologo/a (quanti/e ne conoscete che oltre ai loro manuali hanno letto Madame Bovary e/o Anna Karenina?), spazia a prendere in considerazione oltre al solito stracitato racconto di Kafka, persino Dostoevskij e Stendhal, e dalla letteratura si sposta alla sociologia, all’etnologia, alla storia, inquadrando l’anoressia e l’epoca in cui viviamo in ambiti di vastità possibilistiche impensabili per chi si limita alle infallibili certezze del meccanicismo e alle stupidità autoreferenziali dei sistemi ideologici (o schemi di riferimento, per dirlo con Vittorio Guidano) chiusi: ma qui si può far notare che ciò che vien detto in queste condizioni, cioè prima si mette in piedi il sistema teorico e poi si scoprono le verità che ne dipendono, configura quelli che Kant chiama giudizi analitici, e i giudizi analitici non aggiungono nulla alla conoscenza.
Addirittura, Girard si azzarda ad evidenziare, nella genesi di anoressia e bulimia, l’importanza di banalità come il fatto che “sempre più persone mangiano da sole, senza orari regolari, trangugiando grandi quantità di porcherie” e trascura, per non dire che nega, l’importanza del narcisismo e della presenza della mamma e del papà, peraltro ben più correttamente denominati, dai professionisti della cura della mente (altrui), la coppia parentale (e naturalmente parentale, che viene dall’inglese, è preferito all’italiano genitoriale). A un certo punto Girard arriva addirittura a parlare di sistema capitalista.
Quindi chiudiamo, dicendo che la lettura di questo breve saggio è stata una gran bella avventura di rinfresco dei neuroni e dello spirito e con la speranza che il meritevole libricino possa far venire a qualcuno la voglia di avvicinarsi al pensiero di René Girard e di approfondire il tema fondamentale della rivalità mimetica, che oltre a farci scoprire perché tutti si sono messi a dire assolutamente e quant'altro, è una delle teorie più affascinanti degli ultimi cinquant'anni, e che soprattutto ha trovato una netta conferma nella neurofisiologia più recente. (bamborino, herzenstube)

A pag. 8 c’è un cui che non c’entra, a pag. 45 trascorre invece di trascorrere, a pag. 77 c’è o invece di io. Ma a pag. 85 c’è il vero meraviglioso gioiello di un Lei formale scritto così, maiuscolo, che forse è la prima volta che ci capita, perché di solito il Lei formale, anche nei libri, rimane minuscolo e spesso non si capisce niente.




Il problema, nella letteratura come nella vita, è che alla fine uno finisce sempre per diventare uno stronzo. (Roberto Bolaño, I detective selvaggi)

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