domenica 8 gennaio 2012

George Steiner

George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero. (Garzanti)
Stamattina al telegiornale ho visto un signore che diceva, se guardiamo dentro noi stessi, sappiamo che ce la faremo.
Se guardiamo dentro noi stessi, sappiamo che ce la faremo.
Silvio Berlusconi ne ha dette tante, quelli più intelligenti di lui lo hanno anche deriso per tutte le tante che ha detto, ma secondo me se le mettiamo insieme tutte, quelle che ha detto Silvio Berlusconi, non arriviamo nemmeno alla metà di questa.
Se guardiamo dentro noi stessi, sappiamo che ce la faremo.
Noi stessi chi, verrebbe da domandare.
In Biologia della cognizione Humberto Maturana dice che il linguaggio non trasmette l’informazione e il suo ruolo funzionale è la creazione di un dominio cooperativo di interazione tra parlanti mediante lo sviluppo di una cornice comune di riferimento, sebbene ciascun parlante agisca esclusivamente entro il suo dominio cognitivo dove ogni verità definitiva è contingente all’esperienza personale.
Così forse se guardiamo dentro noi stessi, sappiamo che ce la faremo, nella misura in cui nel nostro dominio cognitivo entreranno le verità contingenti all’esperienza personale dei padroni della finanza.
Sempre che non ci sia stato un errore involontario, e magari si voleva dire, se guardiamo dentro noi stessi, sappiamo che ve la faremo.
Nell’attesa, il pensiero si fa profondamente triste, e ci possiamo domandare il perché, di questa tristezza, anche al di là della tristezza generata dai tentativi di creazione di un nuovo dominio cooperativo di interazione tra parlanti che i nostri capi mettono in atto sviluppando nuove cornici di riferimento.
Insomma, proviamo a guardarci dentro con la lettura di questo libro, che dovrebbe essere obbligatoria per i devoti di Osho e per i praticanti di zen da quattro soldi, oltre che per gli amanti della mistica psicologica americana da supermercato scaffale libri.
Cioè per essere più chiaro, per quelli che si sforzano di raggiungere vette (o profondità?) meditative che li dovrebbero portare all’annullamento di un pensiero peraltro mai esistito e allo svuotamento di una mente peraltro da sempre povera di contenuto, cioè che prima di svuotarla forse sarebbe il caso che facessero un po’ di lavoro per riempirla.
Così George Steiner non tenta di svuotarci la mente ma ci dà una mano d’aiuto per accrescerne il riempimento con questo libro in sedicesimo con 76 pagine di testo scritto in grande (corpo 12?), che nella sua modesta dimensione è in un certo senso di una vastità incommensurabile. Come la vastità del pensiero.
Non si pensa mai al pensiero, di solito si pensa come si respira. Ce ne rendiamo conto raramente.
Quando cerchiamo di pensarci, al pensiero, ci troviamo di fronte a un magma indefinibile, senza confini e senza possibilità di controllo. Una cosa tutta insieme e tutta lì subito, e non si riesce ad afferrarne i limiti né il contenuto. Cartesio questo non l’avrebbe mai pensato, ma George Steiner pensa nell’epoca della simultaneità e si spaventa. Così, cartesianamente ripiega sulla concentrazione, sulla focalizzazione assoluta del pensiero logico matematico. Che però secondo Ludwig Wittgenstein non è in realtà una forma di pensiero.
Ma ricompare il problema moderno della simultaneità. Il nostro pensiero è solo nostro e impenetrabile, ma è così poco nostro e impenetrabile da essere condiviso con tutta l’umanità attraverso il linguaggio. O meglio, in quanto linguaggio.
Forse George Steiner vorrebbe liberare il pensiero dal linguaggio. Ma per far ciò, si ripresenta il problema delle vette di purezza della matematica. Che però non funzionano per scrivere romanzi, e non sono pensiero.
Così di nuovo George Steiner si spaventa davanti al pensiero che sfugge, che è solo in minima parte presente alla coscienza e si disperde in mille rivoli. Senza che sia possibile trovare nemmeno un rapporto certo, diretto e comprensibile, tra il nostro pensiero e le sue conseguenze. E se cerchiamo di entrare in rapporto con il nostro pensiero in quanto visione del mondo, abbiamo a disposizione solo le due metafore del vetro, come se fossimo alla finestra, e dello specchio. Vetro e specchio entrambi sporchi e offuscati. Metafore visive, quelle che Marshall McLuhan dice qui che nascono con la tipografia. E non possiamo trovare un punto di vista fisso e indiscutibile, nemmeno nella matematica, così come non possiamo trovare limiti definibili. Cartesio e Newton non avevano questo problema, ma non vivevano come George Steiner nel mondo simultaneo di Internet. E comunque anche in questo, come diceva Wilhelm von Humboldt, il pensiero è prigioniero del linguaggio.
Ma se conosciamo poco il nostro pensiero, non conosciamo affatto il pensiero degli altri. Lo possiamo conoscere, qualche volta e solo in parte, solo attraverso l’evidenza delle espressioni emotive, l’ira o la risata. La possibilità di conoscere l’amore con certezza ci è negata. Qui Steiner senza volerlo si sbilancia e, probabilmente convinto che la sua esperienza in questo campo sia uguale a quella di tutti gli altri, confessa una visione dell’amore che brilla di una opaca povertà.
Alla fine, George Steiner si arrende di fronte all’impossibilità di fare un discorso sul pensiero. Di trattarlo come un’abilità che possa essere insegnata, come una facoltà che possa essere classificata come giusta o sbagliata, come elevata o spregevole. Ma ricompare questa impossibilità di distinguere il pensiero dal linguaggio, e ogni lingua ha il suo modo di dire il pensiero di qualcosa.
E alla fine, dai Greci alla nostra epoca del World Wide Computer, il pensiero si ferma davanti a Dio e davanti alla morte. Possiamo passare al di là solo nel silenzio. O nella musica.
E così in qualche modo siamo tornati allo zen.
Però adesso sappiamo qualcosa di più sullo spaesamento attuale del pensiero occidentale. Forse siamo riusciti a comprendere meglio la sospensione del giudizio, il pensiero che trascende i limiti dei suoi stessi presupposti, di cui parla Marshall McLuhan.
E anche se Cartesio non ci tiene più per mano forse ce la possiamo fare a camminare da soli.
Con un po’ di tristezza. (bamborino)
A pag. 17 si dice che “sia” è un monosillabo, e in effetti il probabile “be” del testo originale è un monosillabo, ma in italiano “sia” secondo me è  un bisillabo. A pag. 79 c’è un Seyn che non credo esista in nessuna lingua, invece del tedesco Sein, ma potrebbe essere una scemenza heideggeriana.
L’agitazione è triviale, ma la calma ha un che di diabolico. (Johannes Urzidil, Weissenstein Karl)

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