domenica 22 gennaio 2012

Roberto Bolaño

Roberto Bolaño, I detective selvaggi. (Sellerio)
Ottocento e passa pagine di Sellerio vuol dire avere in mano un libro quasi cubico e già questa è una cosa emozionante.
Emozione che prepara alla sfida di riuscire a leggere il libro senza lasciargli segni di frattura sulla costa, ma la morbidezza pastosa del cubo promette bene, e alla fine ce l'ho fatta. Purtroppo tra i piaceri di Sellerio c'è anche quello della leggerissima carta blu della copertina, e un giorno io ho fatto la cretinata di mettermi a leggere sul balcone, estate sole e caldo ma sul balcone ci sono stato poco e sono riuscito a non impregnare del sudore delle dita la meravigliosa carta delle pagine, ma poi dannazione una goccia di sudore mi s'è staccata dalla fronte proprio mentre chiudevo il libro per rientrare in casa e basta, copertina rovinata per l’eternità.
Se come dice  Humberto Maturana e come dice anche  Walter Ong (vedi qua e ) noi esistiamo solo nel linguaggio e il nostro pensiero non sarebbe possibile e in realtà non è possibile senza linguaggio, allora forse potremmo pensare a tutte le parole dell’umanità come a tutto il pensiero dell’umanità, e a tutta la letteratura come a un’unica opera di tutto il pensiero di tutta l’umanità, e forse potremmo pensare anche che questo pensiero si evolve e cambia e cresce incessantemente, mai uguale a sé stesso, con l’infinità discreta e il resto che dice Noam Chomsky, come si evolve e cambia il pensiero degli individui. E infatti Walter Ong parla dell’importanza dell’intertestualità, del continuo transito di forme e di contenuti tra le opere di narrativa.
Così nell’evoluzione continua della letteratura ogni tanto compare qualcosa di nuovo.
Via, non proprio completamente nuovo perché il problema di molta della migliore narrativa moderna è quello che György Lukács indica per ciò che egli chiama il romanzo della disillusione, cioè l’impossibilità di fronteggiare il peso e la forza eccessiva del tempo, fino allo smembramento e alla perdita della forma, che è appunto quel che succede con I detective selvaggi. E anche se si deve riconoscere qualche grande debito nei confronti di Faulkner e di Vargas Llosa (ma abbiamo già detto con Walter Ong che l’intertestualità è una caratteristica della letteratura moderna) quello che quest’opera ha di nuovo e meraviglioso è il modo in cui Roberto Bolaño realizza in questo caso la catastrofe dello smembramento.
Abbiamo qui un romanzo (romanzo?) in tre parti.
La prima parte è un diario. Il diciassettenne protagonista narratore, poco dopo essere diventato un poeta realvisceralista, cioè un membro del movimento letterario del realismo viscerale, dichiara un programma esistenziale ineccepibile, “Non posso passare la vita a farmi seghe”, dopo poche pagine si pone dei dubbi, “Perché un uomo cessi di essere vergine deve introdurre il pene nella vagina di una donna e non nella bocca o nel culo o nell’ascella? Per poter dire di aver fatto l’amore devo previamente eiaculare? Tutto è molto complicato” e finalmente fa il suo “ingresso alla meraviglia”. Da qui, le sue avventure nel mondo dei poeti realvisceralisti sono scandite da una inarrestabile serie di scopate, il tutto avanti e indietro (sic) tra diverse vicende per Città del Messico, quattordici milioni di abitanti, bevendo un sacco di caffellatte (così nel testo) da un bar a un altro, fino alla fuga verso i deserti del nord del narratore diarista con una ragazza e due poeti realvisceralisti, tra il 2 novembre e il 31 dicembre del 1975.
Nella terza parte il diario continua e si conclude, cioè si apre verso un ignoto futuro, dal 1 gennaio al 15 febbraio 1976.
Prima e terza parte sono bellissime, ma il capolavoro è la seconda parte, che si snoda tra il 1976 e il 1986, e qui non si tratta di un diario ma di una serie di testimonianze sulla vita dei due poeti realvisceralisti che accompagnavano il ragazzo di cui sopra.
A scandire la storia c’è il racconto di un vecchio che passa una notte a sbronzarsi con i due giovani poeti, e tutte le testimonianze sono dei meravigliosi racconti separati, decine di racconti bellissimi e del tutto indipendenti che andrebbero benissimo anche da soli, e tra di loro si articolano, si incontrano sfiorandosi e qua e là si sovrappongono parzialmente,  in una affascinante narrazione completamente priva di struttura.
Anche solo il momento in cui il vecchio, ubriaco fradicio, si avventura verso la cucina di casa sua e quasi non riesce a ritrovare la strada di ritorno verso il soggiorno è una pagina di tale poesia che vale il romanzo, ma i tratti di bellezza assoluta sono continui in quest’opera, ed è bellissimo perdere e ritrovare persone e ambienti nelle narrazioni scombinate dei diversi testimoni, narrazioni che vanno dalla mezza pagina alle venti pagine, con personaggi meravigliosi che raccontano storie di mesi o fanno piccolissime apparizioni.
L'altro gioiello è il sesso, dato che oltre al giovanissimo diarista anche uno dei due poeti è un praticante abbastanza accanito: non ricordo di aver mai letto (sic) racconti di sesso che nell'essere così totalmente espliciti riescano anche ad arrivare a un erotismo così profondo e forte, e completamente esente dalla minima maliziosità e volgarità licenziosa, tanto da far venire in mente le sconvolgenti potenze della scena della carrozza in Madame Bovary e del primo sfiorarsi delle mani di Julien Sorel e della signora Renal in Il rosso e il nero.
Come tutta la grande narrativa, I detective selvaggi è una metafora sul senso della vita, che qui si esprime attraverso la ricerca di una misteriosa poetessa che avrebbe dato inizio al movimento realvisceralista, e che alla fine i nostri eroi riescono a trovare: ma l’incontro è una nuova perdita, anzi è l’origine stessa della perdita, e una dichiarazione della vanità di tutta la ricerca.
Mentre sotto a tutto c’è la nostalgia, che potrebbe sembrare una nostalgia degli anni Settanta ma è una nostalgia di tutto, di tutto quello che sembrava che dovesse andare così bene e che invece è stato rovinato. Capolavoro capolavoro capolavoro. (bamborino)
A pag. 97 c’è un bel gli al posto di le, a pag. 98 e a pag. 161 ci sono due bestemmie che non so come sono in spagnolo, ma secondo me forse in italiano ce le potevano risparmiare, a pag. 150 e 555 il solito esaustivo invece di esauriente, a pag. 177 compare una Ford Impala e l’Impala era una Chevrolet ma secondo me Bolaño ha fatto apposta, a pag. 217 c’è un orribile terrorizzanti, ma perché mai terrificanti non si dice più, a pag. 298 c’è un De Sade, a pag. 315 c’è Elliot Murphie che se è il musicista è Elliott Murphy, a pag. 383 c’è via Zammenhof invece di Zamenhof (e lo so perché in una via Zamenhof ci ho abitato anch’io), a pag. 715 ci sono dei pneumatici invece che degli pneumatici, a pag. 794 un personaggio che già era in piedi poco dopo si alza in piedi. Chiudo facendo rilevare che qualche zotico pignolo potrebbe aver da ridire su un avrei dovuto uscire a pag. 378, che per le regole dei verbi servili doveva essere sarei dovuto uscire: ma mi sento di prendere posizione a favore di questa versione, perché è evidente che qui il tono è con forza sul verbo dovere, preso per conto suo.
Sono da anni un evasore di problemi. (John Barth, La fine della strada)

2 commenti:

  1. Questo cubo è un bellissimo libro.

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  2. Appena finito. Il fatto che cercassi avidamente commenti su web prova quanto condivida il tuo entusiasmo (per Valéry la critica è, dovrebbe essere, "approfondimento del piacere").
    Ti ringrazio degli spunti di riflessione. Aggiungo una sensazione: quasi sempre, quando descrive Ulises Lima, evoca stimoli sensoriali (odori, consistenza della pelle delle mani) che hanno poco di umano e quasi richiamano il cuoio e la carta del libro.
    Complimenti per tutto, blog pieno di cose belle.

    Carlo

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