domenica 12 febbraio 2012

Joyce Carol Oates

Joyce Carol Oates, Una famiglia americana. (Marco Tropea)

Pesante pesante pesante pesantissimo.
E non certo nel senso che è scritto male e che a leggerlo si fa fatica. Anzi si potrebbe parlare di drammatico contrasto tra la leggerezza serena della scrittura e il peso asfissiante della storia.
Perché appunto la fatica è quella di attraversare la vita di questa famiglia, che è proprio americana. Una famiglia con una madre mostruosamente positiva che tutte le mattina sveglia i figli (tutte le mattine) esortandoli a compiere grandi imprese.
E fino a un certo punto sono tutti felici, cioè il romanzo prende le mosse nella costituzione e nel dispiegamento di questa grande solida felicità americana, e ci accompagna fino al giorno in cui alla figlia, la ragazza di successo del college, capita una cosa brutta, tanto brutta e tanto americana da college. Da lì, ci si comincia a sgretolare nel fallimento. E non solo si sfasciano tutti, anche quello che crede di non essersi sfasciato, ma poveretti in fondo non è nemmeno colpa loro.
O forse è proprio colpa loro, perché vengono distrutti da un mondo che tutto sommato è il mondo che anche loro contribuivano a costruire e a tenere in piedi.
Cioè dal meraviglioso incubo americano. (moll)

Dentro di noi c’è qualcosa che si chiama Anima, e quando moriamo non siamo mai morti, e quando viviamo non siamo mai vivi. (Truman Capote, Chiudi un’ultima porta)

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