giovedì 8 marzo 2012

Madame de La Fayette

Marie-Madeleine Pioche de La Vergne comtesse de La Fayette, La principessa di Clèves. (Garzanti)
Ha proprio ragione Anton Čechov quando dice che non c’è bisogno di scrivere di gente che sale su un sommergibile per andare al Polo Nord mentre la sua amata si getta dal campanile con un urlo lacerante.
E nemmeno di raccontare la storia di uno che nasce vecchio e va ringiovanendo mano a mano che il tempo passa.
Come dice Čechov, bisogna scrivere semplicemente di come un tale ha sposato una tale. Basta parlare della vita, della vita normale, perché nella vita che ci facciamo tutti i giorni c’è già dentro tutto, e a saperlo vedere capire e raccontare tutto va bene per scrivere una storia.
Così in questo libro non solo non ci sono cose straordinarie, ma si può dire addirittura che non c’è niente.
Cioè il fatto è proprio questo, che non succede niente. Una storia d’amore dove in un certo senso non c’è nemmeno l’amore, ci sono pensieri sull’amore ma a parte i pensieri, niente. O quel tanto di fatti che basta per generare i pensieri. Lui s’innamora, lei non sa se si è innamorata, forse sì, comunque sta male, e quando vede lui sta bene, e poi sta male di nuovo, e tutti e due corrono dietro a un’ipotesi, a una possibilità che diventa una certezza senza essere mai una realtà.
La principessa di Clèves è il primo romanzo moderno, e la sua modernità forse non è solo nel fatto che la storia è la storia dei pensieri della protagonista, delle sue emozioni, dei suoi pensieri sui suoi pensieri e sulle sue emozioni, ma è proprio in questo, che qui proprio si pensa tutto e non succede niente, e mentre si legge sembra che una storia ci sia, e anzi si potrebbe dire che è una storia di quelle che prendono davvero, e ti viene l’ansia di vedere come va a finire, ma poi te ne accorgi. Chiudi il libro e ti rendi conto che non c’è stato niente, che il romanzo avvincente era la storia di niente, che alla fine sono tutti lì che non hanno in mano niente, e che anche quel poco che avevano avuto se lo sono perso.
Viene in mente Beckett e le sue storie pazzesche che quasi tre secoli dopo sono scritte in un altro modo ma vanno a finire come vanno a finire tutte le storie che in un modo o nell’altro parlano della vita, vanno a finire nel vuoto senza senso, nell’arsenico preso a manciate.
Senza sommergibili, senza scenate, senza prodigi di biologia fantastica. Come i racconti di Čechov. Vanno a finire che nessuno va da nessuna parte. (bamborino)
In una certa misura, siamo tutti coinvolti nella politica della morte lenta. (Thomas Pynchon, V.)

1 commento:

  1. Questo pensiero che nessuno va da nessuna parte (lo leggo spesso qui e mi piace un sacco tornare a leggerlo) mi fa stare di un bene che mi strazia. Come se ci fosse davvero dell'arte nell'esistenza.
    Invece il pensiero di Pynchon mi fa venire in mente: "I'm not afraid to go, but it goes so slow" (Jeff Buckley, Grace)

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