venerdì 9 marzo 2012

Jane Austen

Jane Austen, Northanger Abbey. (Mondadori)
Con Northanger Abbey Jane Austen chiude la storia del romanzo del Settecento e apre al romanzo moderno. Cioè apre all’Ottocento, ma nell’aprire all’Ottocento ci scaraventa già nei regni del Novecento e del postmoderno.
Perché come dice sempre Lyle, il guru della sala pesi di Infinite Jest di David Foster Wallace, il mondo è molto vecchio.
Jane Austen, con Omero, Dante, Cervantes, Shakespeare e Anton Čechov è stata uno dei geni che hanno segnato con la loro opera un punto di svolta nel linguaggio e quindi nel pensiero della meravigliosa miseria della specie umana.
E questo romanzo straordinario, in un certo senso è ancora più straordinario dei suoi successivi capolavori. Perché con Northanger Abbey Jane Austen apre al nuovo balzando di colpo negli ambiti della metatestualità.
Che in realtà era il residuo di oralità del romanzo del Settecento, vedi le piccole introduzioni di Fielding ai capitoli di Tom Jones e i suoi continui interventi e vedi anche la stessa cosa nel Roderick Random di Tobias Smollet e nel Vicario di Wakefield, che peraltro la si trova anche in Il diavolo zoppo di Alain-René Lesage.
Ma in Northanger Abbey la metatestualità è parte integrante della storia e la protagonista Catherine è da subito oggetto di un discorso che non è il discorso del romanzo, ma un discorso sul romanzo, in quanto di lei si dice subito che è l’eroina del romanzo, ma non era dotata di caratteristiche personali tali da condurla a questo destino.
La narrazione risulta quindi stravolta fin dalla prima pagina. E in realtà Catherine non diventerà mai l’eroina del romanzo,  perché il romanzo non avrà nulla di eroico, ma si troverà ad essere l’eroina di due romanzi interni a Northanger Abbey ma del tutto inesistenti.
Non basta. Jane Austen si sposta in continuazione fuori dal romanzo, trattando i personaggi come se non fossero parte del romanzo ma della realtà, per poi parlarne di nuovo come di prodotti dell’immaginazione, e poi trasforma addirittura i personaggi in autori, facendo inventare da loro stessi le due storie interne di cui ho detto.
E non solo quelle, perché in realtà tutta la vicenda procede attraverso invenzioni dei personaggi, che raccontano e si raccontano storie interne alla storia principale, che attraversano i fatti e li ridefiniscono deviandoli dai loro svolgimenti prevedibili. Così mentre Isabella e John Thorpe trasformano in continuazione gli eventi attraverso la loro personale narrazione, Henry Tilney si sposta tra realtà e invenzione alla ricerca del punto di mezzo di un’attendibilità che è solo quella del romanzo.
Ma in Northanger Abbey la distanza tra la realtà e l’invenzione è solo una sfumatura e forse l’unico vero dato di realtà è la voce di Jane Austen che interviene a commento. Ma anche la realtà dell’Autrice, non sarebbe data se non si presentasse dentro l’invenzione romanzesca. 
E non basta ancora, perché in poche fulminanti righe c’è anche un discorso sul rapporto che intercorre tra incontrare le cose nella realtà e leggerle nei romanzi, e l’ottimo Tilney fin dall’inizio si esibisce in una serie di commenti sull’uso del linguaggio, che andrebbero bene anche come critica del discorso quotidiano contemporaneo.
Insomma la metatestualità di Jane Austen forse sarebbe meglio chiamarla intratestualità. Come scavo del discorso dentro sé stesso, alla ricerca della profondità del proprio senso, nel momento in cui si istituisce in quanto discorso, in quanto serie di parole che diventa creazione di un mondo.
Jane Austen era una grande estimatrice di Samuel Richardson e nella sua assoluta genialità parte da lui per spingere in avanti quel mettersi in discorso dell’Occidente di cui parla Michel Foucault e comincia la sua carriera portando le tormentate riflessioni di Pamela alle loro estreme conseguenze. Cioè dalla riflessione sull’interiorità, non possiamo sapere se consapevole o non consapevole che l’interiorità si sviluppa nel linguaggio ma non ci interessa, Jane Austen passa subito, con il primo intervento di Henry Tilney nelle prime pagine, a una riflessione sulle possibilità del discorso e del linguaggio di parlare del suo proprio manifestarsi in quanto tale, e mette in discorso lo stesso mettersi in discorso.
Quello che troveremo in Justine di Lawrence Durrell e poii in Fuoco pallido di Vladimir Nabokov.
Mentre comincia a dispiegare quella che sarà la sua forza principale, per non dire unica in mezzo a tutti, che è l’assoluta inestricabilità di ogni personaggio dagli altri, l’ineminabilità di ogni storia dal contesto delle altre, che si farà più potente di romanzo in romanzo. Cioè ben diversamente da quel che accade ad esempio in I fratelli Karamazov nei romanzi di Jane Austen tutto è essenziale e indispensabile e perfettamente interdentato con tutto il resto e l’espunzione anche di un solo personaggio porterebbe al crollo di tutta la storia.
Per fare un esempio, qui John Thorpe non sembra affatto essenziale, per quasi tutto il romanzo è solo un cretino che passa di striscio, e invece oltre a collegarsi con gli altri per vicinanze e occasioni alla fine sarà il generatore delle esplosioni conclusive di tutta la vicenda, che si scopriranno perfettamente incastrate nella sua storia e nelle storie di tutti gli altri. 
Insomma forse ho fatto un po’ di casino ma Jane Austen è quello che è e io sono il povero omino che sono e se porto anche solo un lettore in più a questo romanzo oltretutto più che forsennatamente piacevole senza interruzioni dalla prima parola al punto che lo chiude, quel lettore in più uomo o donna che sia sarà una persona felice e io sarò felice anch’io. (bamborino)
A pag. 24 c’è un opinini, a pag. 35 l invece di li, a pag. 114 soddisferebbe, quasi identico al corretto soddisfarebbe ma se uno i composti del verbo fare non li ha capiti, c’è poco da fare (sic), e a pag. 124 arriva infatti un bel soddisfi, a pag. 193 c’è una coseguenza, ma a pag. 148 fa piacere che, una volta ogni tanto, si dica grafia invece di calligrafia per fare riferimento alla scrittura di una persona.
I grandi autori hanno un legame di parentela con i cavalieri erranti in questo: che gli uni e gli altri suscitano manifestazioni appassionate di gratitudine. (Jean-Paul Sartre, Le parole)

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