venerdì 2 marzo 2012

Maeve Brennan

Maeve Brennan, La visitatrice.  (Rizzoli)
Anche in un bar, quando ci si siede a prendere una limonata, arriva il momento di alzarsi e pagare e uscire di nuovo in strada e ricominciare a camminare. Si è destinati a farsi rispedire al posto da cui si viene, che è l’altro mondo, il primo, quello circondato da mura.
Se una sera d’inverno, una viaggiatrice. 
Dublino, freddo e pioggia, la giovane Anastasia torna alla casa del padre.
Torna da Parigi, dove ha appena perso la madre. Anche suo padre è morto, molto tempo prima.
Anastasia torna da Parigi, perché pensa, almeno ancora disperatamente spera, di avere un posto a cui tornare.
Ma trova la nonna paterna. Le è rimasta solo lei ma capisce subito, per l’oscura empatia dei disperati, che la vecchia non è certo rimasta per lei. 
È rimasta per coltivare e onorare la memoria del figlio. Un figlio amatissimo a cui non ha perdonato un matrimonio con una donna che non approvava, una donna che ha poi disonorato la sua famiglia, fuggendo da sola a Parigi. E ora Anastasia, che ancora ragazzina era fuggita a sua volta per raggiungere la madre, aggiungendo strazio allo scandalo, trova la gelida, aperta, ferma decisione della nonna, di rispedirla al più presto lontano dalla casa del figlio. 
La vuole fuori da una casa che è anche la sua casa, per diritto e per senso umano, la vuole fuori dalla sua vita non vita, che deve perdurare immutata fino al ricongiungimento con il figlio, quando verrà il tempo. 
Ognuno chiuso nella sua versione dei fatti, nessuno sembra essere in grado, e ancora meno desiderare, di liberarsi dai propri fantasmi e il passato, a cui tutti si aggrappano ostinatamente, diventa il riflesso distorto del rifiuto di accettare il cambiamento, mentre il tempo là fuori continua a scorrere indifferente, freddo.
Anastasia disperatamente insegue i suoi poveri ricordi, che l’hanno tradita e che ancora la beffano, mentre cerca assurdamente il profilo della madre morta in una sconosciuta seguita tra le luminarie dei negozi in festa, in una corsa straziante che termina in una chiesa.
Scacciata come una pazza anche dal tempio di Dio, ma non dell’uomo, ad Anastasia, sconfitta, rimane il ricordo, che si fa presentimento, e in fine diventa smarrimento
Fuggitiva suo malgrado, ha perso tutto, e alla fine non le rimane che perdere sé stessa, perché almeno un velo pietoso venga a preservarla dall’orrore inspiegabile del mondo. 
La cattiveria è cosa innata nello spirito dell’uomo e fa parte dell’ordine delle cose, eppure chi scrive riesce a trasmettere il senso di spaurito stupore di fronte alla stupidità del male.
Quel senso di impotenza e confusione che porta un piccolo a farsi la pipì addosso se la paura è troppo grande, e spinge l’adulto a cercare nella follia l’antidoto all’inspiegabile. C’è qualcosa di epico e di selvaggio nell’orrore della negazione umana, e di profondamente umano nello smarrimento inebetito in cui essa ci lascia. (Rosa M.)
Deve provare molto piacere e molta pena, chi pratica a lungo del mondo, in questi giorni di affanni. (Beowulf)

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