lunedì 2 luglio 2012

C. S. Lewis


Clive Staples Lewis, Diario di un dolore. (Adelphi)
C. S. Lewis aveva scritto questo libro per elaborare il suo dolore per la perdita della moglie. Che aveva sposato a più di cinquant’anni, più giovane di lui di diciassette anni, e che era morta di cancro pochi anni dopo.
L’aveva pubblicato con uno pseudonimo, e gli era capitato che chi conosceva la sua disperazione gli consigliasse, per trovare qualche conforto, la lettura di questo testo. Così poi ci ha messo il suo nome.
Sono ottantacinque pagine piccole, in un corpo piuttosto grande. Una scrittura semplice, elegante, che prende e commuove dall’inizio alla fine. Si leggerebbe in una sera se non fossero frequenti le interruzioni per riflettere e per guardarsi dentro.
Lewis parte dal dolore e da questo comincia un processo di introspezione che ha pochi termini di confronto e che si sposta verso una riflessione sulla memoria e su noi stessi, cosa ci sentiamo essere e come ci sentiamo essere nei rapporti con la nostra vita e con quello che per noi sono gli altri. La coscienza e il rapporto doloroso tra la nostra consapevolezza di esistere e la nostra consapevolezza dell’esistenza degli altri.
Poi Dio.
Noi e Dio, cosa è Dio per noi, cosa possiamo essere noi per Dio.
Come la vita e la morte possono essere pensate rispetto a noi e rispetto a Dio.
In una osservazione che non è mai oggettiva e rimane sempre dentro una soggettività totale, fenomenica.
Noi come soggetti pensanti, noi come oggetto del nostro pensiero. Gli altri come oggetti del nostro pensiero. 
Nei vuoti che separano queste cose (non sono capace di trovare una parola decente) Lewis ci mette Dio, nella piena meravigliosa consapevolezza, dopo aver cercato per tutto il testo di dirne qualcosa di sensato, che di Dio non si può dire niente di sensato.
Come non si può dire niente di sensato sulla coscienza, su noi stessi, sulla vita, sulla morte.
Cioè non si può dire proprio niente. (bamborino)
E proprio perché l’uomo può stender la mano al di là di un così scarso numero d’anni e può afferrare un numero così scarso di mani amiche, proprio per questo bisogna scusarlo se fa un libro. (Jean Paul, Vita di Maria Wuz)

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