domenica 8 luglio 2012

Giorgio Agamben


Giorgio Agamben, La Chiesa e il Regno. (nottetempo)
Microlibro sulla secolarizzazione della Chiesa e sul suo abbandono di ogni esigenza escatologica. In cui si impara che parrocchia viene da una parola greca che significa soggiornare come uno straniero.
Microlibro di non facilissima e immediata comprensione, ma è così piccolo che lo si può leggere sette o otto volte e tra una volta e l’altra continuare a meditarci sopra.
Forse questo libretto di Giorgio Agamben può essere avvicinato a quello che dice Marc Augé in  Che fine ha fatto il futuro? quando parla della fine del tempo e della possibilità che la formula che coniuga economia di mercato e democrazia rappresentativa sia veramente definitiva.
Se ne può trarre anche una riflessione sul pervasivo stato di profondo ridicolo in cui i poteri planetari continuano a muovere le loro danze di catastrofi annunciate.
Ma Giorgio Agamben si richiama alla filosofia della storia e poiché io credo che non stia finendo il mondo ma più storicamente stia finendo l’Epoca Tipografica (vedi Marshall McLuhan,  La galassia Gutenberg), vorrei segnalare la possibilità di utilizzare il libretto per una riflessione personale su come ci vediamo, ognuno di noi nel suo personale pensare a sé stesso, nei confronti del nostro tempo personale. Nei confronti della nostra transitorietà e della nostra escatologia individuale.
Nei confronti del nostro soggiorno come stranieri.
Nell’eventualità che ci possiamo trovare, in un momento di ripiegamento autoreferenziale, a considerare la possibilità di un nostro personale individuale tempo messianico.
Mi ricordo di un giorno che mi sono reso conto di quante erano state le circostanze in cui mi era capitato di vedere un luogo per l’ultima volta, e di sapere solo dopo, che quel luogo non l’avrei mai più visto, che lì non ci sarei mai più stato. Case di amici, case di amanti, luoghi di lavoro abbandonati senza prevederlo. Spazi e tempo in cui avevo soggiornato come uno straniero.
Da allora l’ho sempre pensato, che forse un posto lo vedevo per l’ultima volta, e in qualche circostanza ho cercato di riafferrarne la presenza subito dopo, consapevole che la consapevolezza del luogo non poteva presentarsi nel momento della permanenza nel presente, ma solo nel ricordo. E così cominciavo a stabilirla nel ricordo immediato.
La nostra transitorietà ci scoppia in faccia tutti i giorni.
E allora può valer la pena di pensarci, se abbiamo un fine verso il quale ci diamo una direzione. Se nella realtà transitoria delle nostre cose penultime riusciamo a contenere una presenza della tensione verso le nostre cose ultime.
Perché come dice Giorgio Agamben in questo libro piccolo e come diceva anche Dante Alighieri in un libro più grosso, secondo la teologia cristiana vi è una sola istituzione legale che non conosce interruzione né fine: l’inferno. (bamborino)
La vita non è come dovrebbe essere. (Larry McMurtry, L’ultimo spettacolo)

1 commento:

  1. Di Agamben mi piacque molto Profanazioni. E’ sicuramente un filosofo interessante. Di questo articolo mi piace molto l’espressione "La nostra transitorietà ci scoppia in faccia tutti i giorni." Verissimo e ben detto, un saluto.

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