giovedì 26 luglio 2012

Jonathan Littell


Jonathan Littell, Taccuino siriano. (Einaudi)
Un’opera di corrispondenza di guerra dalle città siriane, nel febbraio di quest’anno. Freddo, nebbia, neve, pioggia.
Un capolavoro di aridità.
Una narrazione monotona piatta e noiosa dalla prima all’ultima riga.
Ma poiché fin da Le Benevole siamo convinti che Jonathan Littell sia un grande scrittore e anche i suoi saggi, Il secco e l'umido e Cecenia anno III, ci sono piaciuti tantissimo facciamo lo sforzo di cercare in questo arido grigiore il suo metadiscorso sulla guerra civile siriana.
Così ci rendiamo conto che per tutto il libro Littell ci informa dettagliatamente di quello che mangia, se è buono o no, di dove lo mangia e con chi, di dove lo va a prendere.
Come se si potesse fare solo così il resoconto di una guerra il cui accadere è in mezzo alle strade, il cui svolgersi è nel corso di giornate qualsiasi, nel suo punteggiarsi di attraversamenti veloci di strade in cui i cecchini di Assad prendono di mira anche i bambini quando i soldati non vanno addirittura a sgozzarli in casa con i genitori, e i suoi agenti prelevano i feriti dai posti di pronto soccorso per torturali, quando non li torturano addirittura negli ospedali.
La guerra e la morte nei modi più orribili, come serie di banalità quotidiane.
E mentre avanziamo con Jonathan Littell nel grigiore e nel freddo dell’assenza di pietà ci possiamo fermare a pensare alle altre cose che dice di questa rivoluzione che somiglia in un certo senso, e in più di un modo, alla rivoluzione egiziana.
Innanzitutto nella mancanza completa di un’ideologia che la sostenga, che vuol dire fondamentalmente la mancanza di riferimenti religiosi: i nemici sono alauiti, ma i ribelli non fanno distinzioni tra sunniti sciiti e altro, né vogliono che distinzioni siano fatte.
Ci troviamo di fronte un’altra volta ad una volontà collettiva priva di programmi e di contenuti, e ancora vengono in mente, per quel che riguarda noi, le cose tipo Zuccotti Park e alcune delle considerazioni che si sono fatte per il libro di Wael Ghonim, Rivoluzione 2.0.
Con in più il pensiero che se questa gente ce la fa, e sembra che pure in mezzo alle fatiche e alle sofferenze questi eroi  tranquilli e irriducibili ce la faranno, forse anche qui le cose, speriamo con meno fatiche e con meno sofferenze, forse potranno cambiare più in fretta di quello che si può prevedere. (blifil)
A pag. 47 c’è un brutto ha potuto in vece di è potuto, a pag. 109 troviamo l’Sohn, a pag. 116 insh’allah viene tradotto in nota come Nel nome di Allah, il Clemente, il Misericordioso, che tutto profluvio aggettivale in due parole mi sembra un po’ incredibile, ma a pag. 142 va lodato un pregevole gli pneumatici.
Il significato dei termini arabi, scritti in corsivo, è dato nelle note a piè di pagina e non c’è un glossario, così quando ci si dimentica bisogna andare a cercare indietro (o supra) nel testo, e la parola falafel è senza spiegazione e scritta in corpo normale, come se fosse scontato che nella cultura del lettore italiano medio ci fossero i falafel. Sarà che probabilmente non sono un lettore medio, ma io i falafel non so cosa sono, e per me chi pensa che in Italia questi falafel siano una cosa come la pizza, se li può ficcare dove preferisce.
Di tutti i semi affidati alla terra, il sangue dei martiri è quello che dà più rapida messe. (Honoré de Balzac, La ricerca dell’assoluto)

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