giovedì 12 luglio 2012

Keith Richards


Keith Richards, Life. (Feltrinelli) 
Uno scrittore famoso ha cominciato la propria autobiografia, un’autobiografia che ha segnato la prima parte del Novecento, dicendo che per molto tempo era andato a dormire di buon’ora.
Qui le danze si aprono con un’avventura grottesca in un tribunale americano, e poi Keith Richards comincia il racconto della sua vita dicendo, per molti anni ho dormito, in media, due volte a settimana.
Che potrebbe essere il segno di una vita dedicata al genio e alla sregolatezza, ma anche se nel libro ci sono sparatorie e ci sono incendi e c’è di tutto, e c’è anche tutta la storia del tour del 1976 in cui lui era fattissimo sempre e il figlio Marlon di sette anni lo doveva assistere, Life è il segno di una vita dedicata tutta e sempre alla musica, e anche quando sguazzava nell’eroina Keith Richards ha sguazzato senza arrivare al punto di rovinarsi come musicista.
E così questa è semplicemente la storia di un musicista, la storia di quello che è probabilmente, ma secondo me sicuramente, il più grande musicista della seconda metà del XX secolo.
Semplicemente, perché Keith Richards avrebbe potuto raccontare la storia dei Rolling Stones ma non l’ha fatto. Racconta l’Inghilterra del dopoguerra, racconta gli anni Sessanta, racconta le sue donne e i suoi amici e le loro storie e si parla degli Stones, certo che se ne parla, ne dice di Mick Jagger, si meraviglia del suo eterno irrequieto snobismo, dice che sembra che vorrebbe essere un altro e si domanda, perché mai dovresti desiderare di essere qualsiasi altra cosa quando sei Mick Jagger, e qui coglie in pieno il discorso di René Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca sulla trascendenza verticale, e sulla trascendenza deviata nella malattia ontologica, e ne dice di Charlie Watts, il grande Charlie Watts che è il motore degli Stones ed è il più grande di sempre nel suo strumento, e ne dice di Bill Wyman, e ne dice di Brian Jones e di Mick Taylor e di Ron Wood, ma il punto è sempre lui, il punto è sempre l’artista e la sua dedizione totale alla musica, la sua trascendenza verticale nella musica.
Nella completa consapevolezza di essere quello che è stato e che continua ad essere, come dice quando racconta di una volta che era tornato nella strada dove è nato, e alle ragazze che gli chiedevano l’autografo ha detto, be’, sono ancora sulla cresta dell’onda, e chiunque stiate ascoltando adesso, non sarebbe in giro se non fosse per me.
La consapevolezza di essere la colonna portante della storia del rock ‘n‘ roll, che si ripete nell’emozione che prova prima di esplodere con la sua musica tutte le volte che in uno stadio gli altoparlanti dicono, ladies and gentlemen, The Rolling Stones.
E forse questo Life potrebbe essere un romanzo sulla coscienza, sulla vita come presenza della musica nella coscienza, una vita e una coscienza totalmente assorbite dall’arte. Come se l’arte fosse l’unica risposta praticabile, l’unica evidenza di una possibilità di soluzione al problema dell’esistenza, come mostra Thomas Bernhard in Il soccombente.
Basta.
Life è un libro che segna la chiusura di un secolo, anche perché è la storia dell’artista che ha dato l’anima e il sostegno a quella colossale espressione della musica dell’oralità secondaria che è stata la voce di Mick Jagger, e infatti è un libro non scritto ma raccontato da Keith Richards a James Fox.
Ed è il libro di un uomo in una maniera così intensa e profonda, che mi ha fatto venire in mente, fin dall’inizio e poi per tutte le pagine, il Viaggio al termine della notte. (blifil)
A pag. 19 per Starfucker si poteva fare una nota, perché non tutti sanno la storia di questa canzone, a pag. 29 c’è il solito severa invece di grave, a pag. 31 in nota il Grave-send secondo me sarebbe stato meglio Graves-end, a pag. 65 e a pag. 290 c’è il solito realizzare per rendersi conto, a pag. 77 se invece di sei e una discutibile lambretta minuscola, a pag. 96 manca un del, a pag. 200 manca di, a pag. 211 un disdiva che fa coppia con il penoso soddisfasse a pag. 457, due strafalcioni che anche i programmi di scrittura segnalano con la riga rossa, a pag. 237 c’è il solito triviale che in italiano ha una connotazione di volgarità più che di irrilevanza e poi c’è un discutibile bande che sarebbe stato meglio band, in italiano la banda è quella che va in giro in divisa con gli ottoni, a pag. 317 c’è so invece di sono, a pag. 391 c’è un avrebbero che secondo me andava meglio avessero ma potrebbe essere discutibile, a pag. 456 c’è Steel Wheels che siccome qui è il titolo del disco richiederebbe il corsivo.
Ma probabilmente il refuso veramente imperiale di questo libro è la data 1980 delle due foto in copertina, che basta guardare le altre foto che ci sono nel libro per capire l’errore.
Oh, colui che è stato gettato dal destino nel carcere dell’arte, difficilmente riesce più ad evaderne; egli rimane chiuso all’interno del confine invalicabile presso il quale vive la remota realtà della bellezza, e se la sua forza è insufficiente, egli diventa per tale reclusione un vano sognatore, un ambizioso, un fallito; ma se è un vero artista, diventa un disperato. (Hermann Broch, La morte di Virgilio )


Cinquanta anni fa, il 12 luglio 1962, i Rolling Stones sono apparsi in pubblico per la prima volta con il loro nome, al Marquee Club.

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