domenica 15 luglio 2012

Jonathan Littell


Jonathan Littell, Cecenia anno III. (Einaudi)
Non so se dire che è un piccolo libro di storia recente o un articolo di giornale di dimensioni enormi. Ci sono anche le illustrazioni, come nel lavoro precedente di Littell,  Il secco e l’umido. Diciamo che è un caotico resoconto della situazione della Cecenia, che ho letto partendo da zero, cioè io della Cecenia prima di questo libro non sapevo più o meno niente.
Nel caos del racconto c’è però il fatto che Jonathan Littell è uno scrittore con i superfiocchi e quindi alla fine, e anche all’inizio e a metà, Cecenia anno III si legge con grandissimo piacere e il caos della scrittura, fatta di spezzoni continuamente interrotti, scene brevissime, interviste fulminee, descrizioni veloci, commenti suddivisi in diversi interventi in un succedersi di spostamenti dalla Cecenia al resto dell’Europa, il caos del racconto manifesta un suo ordine, come di una sassaiola di parole a piccoli gruppi che non si fermano mai.
Quindi non so se questo libro possa dare un’idea attendibile di quello che succede in Cecenia, anche se credo che l’inafferrabilità stilistica vada di pari paso con la sfuggevolezza (o sfuggevolità) dell’argomento e del luogo, in cui le condizioni politiche si mischiano con quelle etniche linguistiche e religiose e dove l’intelaiatura che tiene insieme tutto sembra sia il movimento di denaro, che si sposta tra la corruzione e una sorta di beneficenza istituzionale, nelle nebbie fumose di una palude in cui si sguazza, invece che nel fango, nel sangue di migliaia di persone uccise e torturate.
Unici elusivi punti di riferimento sono i personaggi che si muovono con i loro interessi individuali piccoli e medi, assolutamente mai niente di grandioso se non nell’avidità del dittatore e/o padrone della Cecenia, di cui Littell evidenzia l’essenza di ridicolo cattivo gusto che non manca mai nel potere moderno e che ci aveva già mostrato in Il secco e l’umido.
E il bello di Cecenia anno III secondo me non è solo in quello che possiamo imparare sulla Cecenia ma nelle qualità stilistiche dell’opera.
Anche se per un libro di più di cento pagine non so se si possa parlare realmente di giornalismo, e come ho già detto forse in un certo senso qui Littell fa una cosa che ha un po’ del giornalismo e un po’ della storiografia. Per cui mi sembra importante mettere in risalto gli aspetti stilistici e formali di questo libro che ha le caratteristiche dell’andamento per link successivi che possiamo trovare nell’informazione in Rete, come se durante la lettura ci trovassimo a girare in un motore di ricerca sulla Cecenia.
Frammentazione totale, passaggi rapidi dalle parole di un personaggio alle parole di un altro e poi a un commento e a una descrizione, ogni cosa con un punto di collegamento velocissimo a un’altra, senza porsi mai in un punto di vista prospettico che possa dare un ordine alle cose stabilendo differenze di importanza tra i diversi elementi del flusso delle informazioni. Come fa Internet e come fa l’informazione televisiva.
Ma la grandezza di Jonathan Littell è che qui compie l’impresa difficilissima di mantenere nella fluidità e nella simultaneità oralistica del testo una posizione sempre distaccata, che mettendo in atto quella sospensione del giudizio di cui parla   Marshall McLuhan, alla fine mette comunque il lettore in grado di costruirsi un pensiero che ha qualcosa di organico e di strutturato.
E forse il pensiero che si forma nella nostra mente dopo questa lettura ha una struttura bizzarra, ma potrebbe essere un inizio proprio di quelle nuove modalità di pensiero che l’umanità costruirà a partire dalle nuove tecnologie della comunicazione.
Personalmente, posso aggiungere che mi fa piacere che comunque, per mettere in un qualche ordine le idee, Jonathan Littell ci fa vedere che forse la tipografia è ancora imbattuta. (blifil)
Alla fine c’è un utilissimo glossario delle parole russe e cecene che compaiono nel testo, peccato che il glossario sia incompleto. Ma si festeggia un Einaudi nuovo senza refusi, che non è una cosa da poco.
La materia prima della letteratura non è la felicità, ma l’infelicità umana, e gli scrittori, come gli avvoltoi, si nutrono preferibilmente di carogne. (Mario Vargas Llosa, Storia segreta di un romanzo)

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