lunedì 23 luglio 2012

Martin Heidegger


Martin Heidegger, Sul principio. (Bompiani)
Dice Marshall McLuhan in Gli strumenti del comunicare, cap. 20 sulla Fotografia, che nell’era della fotografia il linguaggio assume un carattere grafico o iconico, il cui «significato» ha pochissimo a che vedere con l’universo semantico e nulla con la repubblica delle lettere.
Troveremo così James Joyce che in Finnegans Wake scrive che Sir Tristram, violista d’amores, da sopra il mar d’Irlanda aveva passencore riraggiunto dall’Armorica del Nord su questa sponda l’istmo scosceso d’Europa Minore per wielderbattere la sua guerra penisolata: né le topsawyer’s rocks presso il fiume Oconee s’altrerano ingrandite fino ai gorghi della Laurens County mentre continuavano a raddublinare il loro mùmpero.
Ma fin che ci avventuriamo per le strade della letteratura e in un certo senso della poesia possiamo tralasciare, anche se con qualche sensazione spiacevole alla cosiddetta bocca dello stomaco, la pretesa del significato e della comprensione.
Tutavia nei miei timidi studi filosofici oso nella mia pochezza avvicinarmi a Martini Heidegger fingendo con me stesso di dimenticarmi che non si è ancora capito se fosse un nazista o no, e mi accosto a questo Sul principio da cui, dice la prefazione, si è irradiata la scossa tellurica che più di molte altre ha mutato la geografia filosofica del Novecento, e nella fatica di approfondire le argomentazioni di questo sommo pensatore a proposito del principio trovo al paragrafo 20, Il rimanere, trovo qui ma potrei trovare a caso perché il testo è tutto così, trovo che, Il modo più puro, poiché principiale, poiché infradecenziale, del rimanere è l’estrorimanere. In quest’ultimo succede un’unica invenuta. Tale invenuta tiene nella lontananza ed estrotiene la lontananza stessa nell’abscissura. L’estrorimanere è la disascondizione pura dello sfuggimento inventuro (ancora mai e volta per volta mai invenuto e invenienziale)
Uomo fortunato, a differenza del nostro lieder Bamborino che ce l’ha in inglese, sono riuscito a procurarmi una copia dell’introvabile Il significato del significato di Charles Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards (Garzanti 1975), e qui trovo, a pag. 52, che fin dai primissimi tempi, i simboli adoperati dagli uomini per favorire il processo del pensiero e per registrare le loro conquiste sono stati una fonte ininterrotta di stupore e di inganno. E per quel che riguarda Heidegger, direi che con lo stupore qui mi ci ritrovo in pieno. Ogden e Richards aggiungono subito dopo che l’intiera razza umana è rimasta fino a tal punto impressionata dalle proprietà delle parole come mezzi per il controllo degli oggetti, che in ogni età ha attribuito loro  poteri occulti.
E ancora Ogden e Richards a pag. 32 fanno rilevare come Saussure, quando si domanda quale sia l’oggetto integrale e concreto della linguistica, non si chieda se ve ne sia uno, ma obbedisca istintivamente all’impulso primordiale di dedurre da una parola l’esistenza di un oggetto al quale la parola corrisponde, e parta deciso a scoprirlo. Ogden e Richards ci avvertono poi a pag. 38 che la semplificazione voluta dalla teoria secondo cui esistono dirette relazioni di significato tra parole e cose è all’origine di quasi tutte le difficoltà nelle quali il pensiero s’imbatte.
Così io mi permetto nella mia pochezza di pensare che l’estrorimanere, sia o non sia la disascondizione pura dello sfuggimento inventuro, non è detto che corrisponda ad alcunché di esistente, e mi viene in mente che frasi come quelle di Heidegger, così come gli sproloqui di Joyce, se vengono pronunciati da un individuo ritenuto affetto da schizofrenia o da altra malattia mentale, comportano un immediato aumento della quantità di farmaci che gli viene somministrata.
Ma forse tornando a Gli strumenti del comunicare possiamo trovare la soluzione del mistero di queste incomprensibilità nell’ipotesi di un possibile fenomeno di raffreddamento di un medium caldo come la tipografia, che si impone così al fruitore sempre meno violentemente e profondamente, e lo chiama a una partecipazione totale. 
Anche se comunque mi viene in mente anche un racconto di Ernest Hemingway, La breve vita felice di Francis Macomber, in cui si narra dell’estrema pericolosità dei bufali. (saposcat)
Le parole, in fondo, non significano niente, servono soltanto per stabilire un contatto. (Georges Simenon, La neve era sporca)

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