venerdì 3 agosto 2012

Carl von Clausewitz


Carl von Clausewitz, Della guerra. (Rizzoli)
Dopo qualche pagina si può pensare che se Hitler avesse letto e meditato questo libro (finito di pubblicare nel 1837) probabilmente i tedeschi si sarebbero fermati un pezzo prima, e anche gli strateghi di Bush, se gli avessero dato una guardata, forse di andare in Afghanistan e in Iraq non gli sarebbe nemmeno venuto in mente. Anche il Vietnam, forse lo si poteva evitare, sempre che non fosse stato comunque il caso, da tutte e due le parti, di evitare una guerra che ha avuto tra i suoi bellissimi risultati quello di trasferire in Indocina la fabbrica delle Clarks.
Ma continuando a leggere si impara che le vere cause dei fatti storici non si possono mai conoscere e quindi anche in questi casi è meglio star zitti.
Quel che conta è che il piccolissimo (pillole BUR) e densissimo testo di Clausewitz (ovviamente questa non è l'opera completa ma solo la parte non strettamente tecnica), in uno stile fittissimo e preciso che non ha mai una parola di troppo, mitraglia non solo gli strateghi militari e gli uomini politici di tutti i tempi ma spara a zero su tutti quelli che si dedicano a inventare regole immaginarie sui contesti della vita e dell’esperienza comune, attività che nella nostra epoca è svolta essenzialmente da quelli che fanno il lavoro di costruire sistemi psicologici, con l’aggiunta più recente degli studiosi della cosiddetta economia emotiva e delle teorie dei giochi.
Di fatto si può dire che la guerra non c’entra niente, o meglio c’entra solo in un certo senso, come il tiro con l’arco in Lo zen e il tiro con l'arco di Eugen Herrigel.
Clausewitz, forse senza rendersene conto ma più probabilmente rendendosene ben conto e nella piena consapevolezza di essere un genio, spiega non come si fa la guerra ma come si sta al mondo. E cerca di far capire che in una materia complessa come la vita (o la guerra, o l’economia, o altro) sarebbe tanto bello avere dei meccanismi, dei metodi, delle ricette, delle teorie, perché questo ci farebbe stare tutti più tranquilli e sereni, ma purtroppo non è così. E già farsene una ragione non sarebbe male.
Vedi Barack Obama, che è convinto di poter stabilire la data della fine della guerra in Afghanistan, vittoria finale compresa. Anche se non ci sarebbe bisogno di leggere Clausewitz, ma dovrebbe bastare un quoziente intellettivo sopra 80 e aver studiato storia alle scuole elementari, per sapere che non è possibile prevedere la durata di una guerra. E forse anche per domandarsi come potranno combattere i soldati americani, quando mancheranno poche settimane alla partenza.
L'altra cosa importantissima che cerca di far capire quest’opera è che spesso, se non  sempre, avere qualcosa che non funziona bene non è detto che sia meglio di niente, e qui viene in mente Paul Watzlawick, che in Istruzioni per rendersi infelici racconta la storia dell’ubriaco che cerca la chiave di casa sotto un lampione, e al poliziotto di quartiere che lo vuole aiutare e gli dice che lì la chiave non c’è, risponde che lo sa benissimo, che l’ha persa più in là, ma dove l’ha persa è buio e non si vede niente.
E un’altra cosa fondamentale che ci dice Clausewitz è che comunque, quand’anche avessimo un qualcosa che funziona bene, purtroppo per noi, il caso o meglio gli eventi che non siamo in grado di prevedere e/o di controllare, hanno una influenza enorme in qualsiasi fatto della vita. 
E allora? Dobbiamo rinunciare a cercare di barcamenarci perché alla fine contro il caso non si può fare niente? Be’, no, alla fine Clausewitz a modo suo ci dice di fare come svariati anni dopo ci ha detto anche John King in Human punk: cercate di scegliere bene, seguite l’onda, ma tenendo gli occhi ben aperti. Non sarà molto ma in genere si riesce a farsi meno male. Che non è poco.
Comunque leggere per credere, anche perché come si è già scritto nel post su Il riso di Henri Bergson, leggere qualcuno che sa di cosa sta parlando è sempre un gran bel piacere. (bamborino, zarlingo)
Ciò che impedisce alla guerra di essere un vero gioco è probabilmente ciò che nega tale qualifica anche alla borsa e agli affari: le regole non sono interamente conosciute e non sono accettate da tutti i giocatori. È inoltre eccessiva la partecipazione del pubblico. (Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare)

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