martedì 28 agosto 2012

John King


John King, La prigione. (Guanda)

Il buono di decidere di mettere in piedi questo blog, è stato anche che adesso, quando si finisce un libro e lo si chiude, ci viene in mente che si scriverà qualcosa, e questo ci porta a riflettere sul libro in questione in un modo diverso, profondamente diverso da prima.
Cioè prima ci si limitava a godere della fortuna, peraltro non casuale, di poterne parlare con qualche amico/a, e la conversazione aiutava a mettere in ordine i pensieri sparsi e malformati che ci giravano per la testa. Mentre adesso i pensieri passano dal parlato allo scritto e questo, vedi Walter Ong, cambia tutto.
In meglio, speriamo.
La prigione è stata una lettura emozionante, perché i libri di  John King li abbiamo letti tutti, e di tutti abbiamo parlato nel blog, ma questo è radicalmente diverso dagli altri.
Cominciando da questa parola, romanzo, che salta fuori perché è un libro di 300 pagine, ma nel momento in cui decidi di scriverla ti rendi conto che romanzo non è la parola giusta. Anzi, la parola giusta proprio non c’è, perché La prigione non è nemmeno un racconto.
Diciamo che è un’opera di narrativa, dotata di un ritmo perfetto, tranquillo e insistente come la serie di movimenti regolari che si fanno salendo e scendendo per i gradini di una scala. Un ritmo così perfetto che anche quando arrivano i tratti in cui John King elimina l’interpunzione si va avanti tranquillamente, come se le virgole e i punti ci fossero lo stesso, e la prima volta c’è un piccolo smarrimento ma poi diventa tutto regolare.
E la trama di una storia sotto sotto c’è, ma è proprio molto sotto, e comunque ha dei vuoti, ma quello che succede è il racconto di un tempo trascorso in un carcere, raccontato come un tempo che in realtà non trascorre ma è sempre fermo. Chiuso appunto come il carcere.
Che è una prigione non definita in un posto non definito, e il tempo vero della violenza dello sporco del disgusto della paura e della noia e della ripetitività quotidiana e dei piccoli occasionali momenti di gioia si articola con le fantasie del narratore protagonista, con i suoi ricordi. Che non sono del tutto definiti nemmeno questi, come non è definito il reato che l’ha portato nel carcere. E a un certo punto si scopre che forse non è una persona definita nemmeno il narratore.
Comunque una pagina dopo l’altra qualcosa va avanti, ma non è facile dire cosa. Forse è solo la vita, cioè uno dei modi possibili della vita.
Raccontata con una tale potenza di personaggi e d’ambiente che a tratti La prigione ti può scivolare dentro la vita dei giorni in cui lo stai leggendo. Qualcosa di tuo che si unisce ai ricordi di Jimmy o un momento in cui di colpo ti trovi a pensare al romanzo e ti dici che no, sei a casa tua e non ci sono ratti che girano sul pavimento e nessuno ti vuol fare del male.
E forse John King in questo romanzo, no romanzo non va bene e non va bene nemmeno racconto, in quest’opera John King fa una metafora della vita, forse il senso di questa storia di un vagabondo che finisce in prigione e che in prigione fa passare il tempo in mezzo a fantasie di altri vagabondaggi, è che ci sembra di andare in giro e di fare qualcosa ma siamo sempre lì, fermi a segnare il passo delle ripetizioni di tutti i giorni. E come per Jimmy qualche volta cambiare vuol dire trovarsi ancora peggio.
Riparlando del libro ci sono venuti in mente altri due capolavori, diciamo altri capolavori ma non lo sappiamo se La prigione è un capolavoro, però è sicuramente un libro con pochi termini di confronto formale e stilistico, come tutta l’opera di John King ha del resto pochi termini di confronto.
Comunque ci sono venuti in mente Morte a credito e L’Innominabile.
Il romanzo di Céline come questo comincia male, poca chiarezza e qualche fatica, ma poi parte e prende la sua difficile strada, e in comune con la La prigione ha la storia di un’infanzia sbagliata che diventa la storia della vita sbagliata di una persona sbagliata.
Mentre il richiamo a Beckett è stato più forte, e quasi da subito, da quando si comincia a sentire la ripetizione e la chiusura, e ci è venuto in mente che anche L’Innominabile si svolge, svolgersi per quest’opera di Beckett è proprio una parola inadatta ma non ce ne viene un’altra, forse sarebbe meglio dire che L’Innominabile si contrae e si addensa, in un prato circondato da un muro.
E poi ci è venuto in mente che John King si è sempre mantenuto nei territori della critica sociale e soprattutto con la Trilogia del Calcio ha forse cercato di costruire un edificio formale strutturalmente paragonabile a quello dei grandi romanzi dell’Ottocento, delineando diverse prospettive di personaggi di storie e di ambienti. Costruzione non più possibile, come dice Giörgy Lukács in Teoria del romanzo, nel moderno romanzo della disillusione. E infatti Fedeli alla tribù, che è il capolavoro della Trilogia, frammenta la narrazione tra il presente e il passato, dislocandola in tempi luoghi e personaggi dolorosamente separati. Mentre in seguito in Human punk la struttura narrativa arretra verso forme vicine all’oralità, con la trama sostanzialmente costruita intorno al tema del viaggio (vedi ancora Walter Ong). E in La prigione la struttura si perde. Come se l’Autore, non sappiamo se consapevolmente, accompagnasse con la propria opera la perdita di struttura del mondo.
A questo punto non sappiamo.
Non sappiamo se tutta questa tirata meritava di essere scritta. Ma per via di questo fatto, dello sviluppo diverso del pensiero quando si parla rispetto a quando si scrive, non è una questione di merito o meno, è che tutta questa roba non sarebbe mai venuta fuori senza l’idea di scrivere qualcosa. E se lo scritto non avesse in seguito generato una conversazione che ha portato a modificarlo.
Casomai la questione è se meritava o no di diventare un post in un blog. (bamborino, zarlingo)

A pag. 101 c’è un bellissimo inusuale usato una volta tanto in modo appropriato, tant’è vero che poco dopo compare, finalmente, un insolito. A pag. 100 c’è un molto improbabile adolescente che suona una cosa di Carl Perkins al flauto, bello, a pag. 183 non si capisce, dopo colazione vanno a cena e poi il pomeriggio passa e vanno ancora a cena, a pag. 287 c’è del gasolio che circola nei radiatori, boh. Ma in ogni modo ci sembra che qui anche la traduzione di Giovanni Garbellini potrebbe essere considerata un capolavoro. E poi che bello trovare di colpo, lì così in mezzo al testo, il grido dei Ramones, “Hey ho, let’s go!”.




Se non avete mai pianto e volete piangere, fate un figlio. (David Foster Wallace, Incarnazioni di bambini bruciati)

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