lunedì 27 agosto 2012

Zadie Smith


Zadie Smith, Denti bianchi. (Mondadori)

La storia parte con Archie, un tipo qualunque, non molto sveglio forse, che cerca di barcamenarsi, come tanti, e come a tanti, gli succedono una serie di cose, che generano delle situazioni, che agganciano un crescendo di personaggi e di vicende, e così via, fino a fare del romanzo un’epopea tragicomica che comincia con un suicidio fallito e culmina circa cinquecento pagine dopo nel libera-tutti finale, e che non si dimentica di nessuno, proprio di nessuno.
In mezzo, Londra negli anni Settanta, una coppia mista, Clara sinuosa e sdentatissima giamaicana e Archie, appena scampato al suo suicidio, basata sul comune malinteso che un matrimonio possa salvare qualcuno da qualcosa, in questo caso la stessa Clara dalle reiterate promesse di armageddon della madre, trapiantata dalla Giamaica e decisissima a fare parte degli eletti quando il Giorno arriverà.
E ancora un malinteso, o una mezza bugia, fonda e cementa l’amicizia tra Archibald Jones e Samad Iqbals, indiano, bengalese come sempre precisa stancamente, diviso tra la fede islamica, il culto degli antenati e la birra inglese, e le infinite tentazioni di un paese barbaro che non sente ospitale, ma di cui si sente ostaggio.
Archie e Sam, hanno perso il treno. Inseparabili per necessità di sopravvivenza, la guerra li ha uniti e beffati, uno credeva di avere un’esperienza da raccontare e si è trovato a piegare carta per sbarcare il lunario, l’altro doveva diventare un grande condottiero o uno scienziato, o comunque un uomo di pensiero, ma serve improbabili piatti orientali in un ristorante per avventori poco intenditori. Entrambi hanno sposato donne molto, troppo più giovani di loro, e hanno figli con ascendenze complicate e necessità misteriose.
Da anni si rifugiano da O’Connell, un’incredibile tavola calda celtico-levantina, per condividere problematiche domestiche, organizzare rapimenti o affrontare rappacificazioni famigliari. Un luogo non luogo, che per la sua stessa natura improbabile li sospende dal tempo, e dal giudizio immeritato di una storia, scritta altrove e da altri, che finalmente possono riscrivere, ri-dire a modo loro, per come le cose si sono svolte e per come avrebbero potuto, e non sono andate, ma sempre con e per loro.
E il resto del mondo fuori.
A bruciare i versetti satanici, siamo arrivati ai Novanta, a flirtate con il sesso, l’erba e le possibilità della genetica, a complottare liberazioni animaliste e a imbastire attentati casalinghi (l’undici settembre è ancora lontano, e di queste cose si può ancora ridere). A cercare di rintracciare un percorso intricato, e tradito dai fatti. A cercare di ricomporre un quadro accettabile, di quella che poi dovrebbe essere la vita.
Se lo spunto è il gioco complesso di intrecci multirazziali, dribblando tutto l’armamentario socioimposto da salotto televisivo della meravigliosa-opportunità-dello-stare-tutti-insieme-nella-diversità, il romanzo riesce a fare quello che i buoni, molto buoni romanzi, riescono a fare. Appena sorridendo ricorda, a chi lo sa da sempre, che se mai abbiamo avuto un posto dove fare ritorno, il biglietto è scaduto da un pezzo, e questa maledetta idea che siamo stati, che si possa, stare meglio, che da sempre ci langue dentro, non è detto che sia sbagliata ma per questo giro bisogna accontentarsi, e magari farsi una birra per tirarsi su. Perché se la storia siamo noi, ognuno cerca di starci dentro come può.
Una storia complicata e semplice, come le storie della gente ordinaria, che di straordinario ha solo il fatto che poi incontra altra gente, e ognuno comincia a raccontare come sono andati i fatti, a modo suo. Raccontare e vivere, raccontarsi e tradirsi. E non si finisce mai. E nessuno può condannare nessuno, perché tutti hanno le loro buone e cattive ragioni, e per quel che vale l’ultima parola, è solo il Fato che può metterci la punteggiatura. (Rosa M.)




Dev’essere stato coordinato da madre natura il fatto che i vecchi vedono meno bene da vicino con quello che non c’è scopo per essi di avere gli oggetti a portata di mano. (Italo Svevo, Novella del buon vecchio e della fanciulla)

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