martedì 7 agosto 2012

Joyce Carol Oates


Joyce Carol Oates, Per cosa ho vissuto. (il Saggiatore)
Pochi giorni della vita di Corky Corcoran, piccolo politicante e piccolo speculatore immobiliare di Union City.
Pochi drammatici giorni della sua infanzia, pochi giorni della sua maturità vissuti nei dettagli degli abiti, dei gesti, dei pensieri, di quello che dice, della gente che vede, delle strade che percorre con la sua Cadillac De Ville, di quello che mangia, di quello che beve, quasi 650 pagine di dettagli di fatti attuali di ricordi di prospettive e di speranze.
Flusso di coscienza intersecato con i fatti, continua ricostruzione di sé stesso attraverso la continua revisione della memoria.
Siamo questo, la narrazione che ci facciamo di noi stessi e che in continuazione rifacciamo ricostruendoci nella memoria. 
Corky Corcoran piccolo grande personaggio, Corky Corcoran come Emma Bovary e come l’Arturo Bandini di John Fante, uno che non riesce mai ad essere niente di vero ma è sempre proiettato verso quello che potrebbe e che vorrebbe essere. E che l’unica volta che si sente quello che è veramente, l’unica volta che si trova in una condizione di totale compattezza dell’essere, senza distanze tra l’attuale e il possibile, questa unità miracolosa della persona gliela fa a pezzi la donna tra le cui braccia l’unità si era realizzata. Da quel momento Corky esplode e si scaraventa in un momento di incertezza dopo l’altro, passa dalla sbronza grave all’astinenza con annesso tremore ai limiti del delirium tremens, fa una serie impressionante di cazzate.
E noi con la Oates gli andiamo dietro un passo dopo l’altro, lungo un percorso narrativo che ci porta in giro per tutta la città, dai bassifondi ai quartieri eleganti, dalle bettole al ristorante del club dei ricchi, ci mangiamo un panino nell’obitorio e visitiamo un crematorio all’americana, in mezzo a politicanti corrotti e puttanelle in carriera (anche negli USA si fa carriera politica scopando), ci aggiriamo nelle miserie e nei disagi personali e famigliari dei ricchi e dei poveri, senza fermarci mai per centinaia di pagine. Joyce Carol Oates è una scrittrice spietata e pesantissima nel peso esistenziale, che anche qui trasuda greve in uno stile narrativo che invece è veloce e scattante come quello di un thriller.
Peccato che le ripetute scene di sesso sino ultradettagliate sia nella descrizione dei fatti che dei coinvolgimenti personali, con donne che immancabilmente esplodono in orgasmi evidenti e rumorosi, con un’insistenza che fa nascere qualche legittimo sospetto. E peccato anche che la storia dell’infanzia di Corky, che vorrebbe essere l’elemento di sostegno di tutta la sua storia personale, in realtà sia messa lì con una pertinenza tutto sommato abbastanza discutibile.
Ma comunque si legge gran bene, e dalla Oates viene fuori la solita America di corruzione e bigottismi universalmente distribuiti, che ci lamentiamo di casa nostra, ma anche là non si sta poi tanto meglio, anche loro è inutile che vadano a votare che tanto i democratici e i repubblicani sono praticamente la stessa cosa come qui il PD e il PdL, e oltretutto loro non hanno nemmeno il Servizio Sanitario. (moll)
A pag. 25 abbiamo uno al posto di una, a pag. 67 fa ridere che la Oates parli del prednisone come di una novità nel 1992, a pag. 116 fanno ridere le pillole per l’alta pressione, in italiano non lo dice nessuno, dicono tutti pressione alta, a pag. 140 abbiamo Israele femminile, a pag. 160 manca in, a pag. 279 c’è quotato invece di quotata, a pag. 32 Kawanaugli invece di Kavanaugh, a pag. 331 e a pag. 455 il solito gli al posto di le, a pag. 339 il solito anglismo realizzare invece di rendersi conto e a pag. 414 si battono tutti i record dello sbaglio di pronomi con un farle plurale femminile invece di fargli o far loro, a pag. 432 c’è un bel disferà.
Sembra poi che le bozze siano state corrette tutte in una volta, e chi se n’è occupato a pag. 499 probabilmente crolla di stanchezza e lascia perdere un i, a pag. 507 c’è una frase che assolutamente non gira, a pag. 509 c’è rinnovarla invece di rinnovarlo, a pag. 524 appare una Squibbs, a pag. 534 c’è èsfinito, a pag. 538 cer1care, a pag. 549 Osar invece di Oscar e Dundoland invece di Dundonald, a pag. 552 sorpesa, a pag. 569 nell’ invece di dell’, a pag. 574 troviamo le cercamiche, a pag. 596 maledzione, a pag. 608 sue invece di sua, a pag. 624 ci sono le orsoline minuscole, a pag. 632 manca un sentito e c’è il solito realizzato.
Inoltre, in tutto il romanzo si dice whiskey anche per il Johnnie Walker Red Label, e whiskey va bene per l’irlandese e per il bourbon ma non va bene per gli scotch, che sono whisky, e mi domando se questa orrendezza sia da imputarsi alla Oates o alla traduzione, mentre temo che sia colpa della Oates il manubrio da sollevamento pesi da ben diciotto chili che a pag. 503 rimbalza su un letto, ma che razza di letto è. Poi, a pag. 216 e altrove si parla di sudare come un porco, e non mi sta bene, l’animale sudato per antonomasia è il cavallo, come quello bagnato è il pulcino e quello che piange è il vitello e quello che dorme è il ghiro e così via, e per tutto il romanzo si parla di intestina, ma in italiano si dice gli intestini, le intestina fa pena.
Ma sono quasi commossa dal trovare finalmente qualcuno che chiama mutande le mutande da donna, invece di mutandine, e si rileva un famigliari correttamente usato per la famiglia a pag. 493, ma dopo un uso estensivo di familiare dappertutto.
Infine, protesto per la copertina veramente abominevole, storpiata da un buco pentagonale irregolare sotto il quale si vede un pezzo del risvolto. 
L’amore è una forza potenziale entro una debolezza attuale. (Thomas Hardy, Via dalla pazza folla)

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