venerdì 10 agosto 2012

Malcolm Gladwell


Malcolm Gladwell, Fuoriclasse. (Mondadori)

Sottotitolo, Storia naturale del successo.
Se dobbiamo credere ai risvolti di copertina, io non l’avrei mai letto. Invece un mio amico mi ha detto di comperarglielo, e alla sera mi sono messo a darci una guardata e sono partito e non mi sono più fermato.
Perché il libro non è affatto quello che promettono i risvolti.
Cioè sì, nel libro si parla del successo, e di come gli uomini di successo sono arrivati ai massimi risultati.
Ma per sapere che il successo di un uomo proviene da una serie di circostanze legate all’ambiente e al momento storico e all’impegno personale, be’, forse basta aver letto un (1) romanzo di Dickens e/o di Balzac, o forse più specificamente Il rosso e il nero.
O per spiegarmi meglio con uno dei miei sistemi preferiti, che è quello di tirare i discorsi fino alle loro conseguenze estreme o impossibili, che è poi una cosa tipo il discorso cosiddetto apagogico à la Zenone di Elea, dovrebbe essere evidente a tutti che anche in presenza di talento e di doti naturali meravigliose, al giorno d’oggi diventare l’Augustus primo Imperatore di Roma non sarebbe tanto facile, cioè è molto difficile diventare l’Augustus se non si è nati in un certo posto e in un certo ambiente sociale e in un certo periodo storico. E se non si è disposti a farsi un culo così. O per avvicinarsi ai giorni nostri, per metter su la fabbrica di scarpe Tod’s è meglio essere nati in Italia in un certo periodo e in un certo ambiente, piuttosto che esser nati nei pressi di Bhopal nei giorni sbagliati. Sempre con la necessità assoluta di impegnarsi a fondo.
Perché Gladwell ci spiega, documentandolo, che per diventare un fuoriclasse in un qualsiasi campo è necessaria anche una notevole applicazione, che egli quantifica in un tempo totale di almeno diecimila ore. Mostrando così la solita corrente tendenza a trovare una ricetta o una spiegazione numericamente quantificata di tutto, anche di capacità biologiche assolutamente non quantificabili e non suscettibili di spiegazioni aritmetiche. E non solo sbattendoci lì la geniale scoperta dell’acqua calda che per ottenere dei risultati in qualcosa bisogna applicarsi molto, ma anche permettendoci la riflessione che forse quelli che si applicano molto a qualcosa, pensa te, sono quelli che a questa cosa più sono interessati, e il resto va da sé. 
Cioè è vero che John Lennon e Paul McCartney sono diventati quello che sono diventati applicandosi alla musica senza risparmiarsi, ma è ben vero che anche Graham Nash degli Hollies le sue diecimila ore credo che se le sia fatte tutte, ma per qualche motivo non è arrivato ai livelli dei Beatles e si è fermato a Crosby Stills Nash and Young. Come le diecimila ore se le sono certamente fatte sia Mark Knopfler che Slash, ma la differenza che c’è tra il genio e l’artigianato di alto livello credo che la possano capire tutti, e comunque per fare Hey Jude hai voglia le diecimila ore.
Stabilito ciò, va riconosciuto a Malcolm Gladwell il merito di evidenziare il delicato rapporto tutt’altro che univoco tra caratteristiche individuali di eccellenza più o meno geneticamente determinate e riuscita eccellente, con un’ampia e approfondita valutazione di come siano coinvolte nel fatto le possibili variabili ambientali, cioè socioeconomicoculturali. Con un accurato discorso generale su cosa sia e come funzioni ciò che viene in generale definito intelligenza, con un bell’esempio sulla riuscita esistenziale di uno degli uomini più intelligenti del pianeta dal punto di vista dei risultati dei suoi test. Sulle cui vicende e attitudini hanno gravato appunto le sue condizioni sociali ed economiche.
Tuttavia Gladwell in un certo senso suggerisce una sorta di ricetta per il successo, ovvero evidenzia una serie di fattori indispensabili per una grande riuscita. Ma in questo non prende in considerazione la possibilità (vedi Humberto Maturana, Autocoscienza e realtà) dell’andamento assolutamente deterministico dell’esistenza, ovvero del fatto che le cose succedono esattamente quando devono succedere, e che è nell’ordine deterministico delle cose che ci siano sempre gli uomini giusti al momento giusto.
O meglio, perché le cose sono andate in un modo piuttosto che in un altro, è una considerazione che viene sempre fatta  a posteriori, e bene o male un motivo lo si trova sempre. Perché date le premesse e dati i risultati, dopo si può sempre constatare che le cose non potevano andare se non come sono andate. Cioè Della guerra di Carl von Clausewitz.
Ma al di là di queste note di filosofia da quattro soldi, Fuoriclasse è comunque bellissimo e oltretutto offre una stupenda occasione di sbifolcamento faidatè.
Perché il libro apre con alcuni interessantissimi rilievi sul nostro stile di vita interpersonale con particolare riferimento alla famiglia nucleare come causa di malattie cardiovascolari, e diventa quindi una bellissima storia del capitalismo dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni nostri, più una bellissima storia degli Stati Uniti, più un bellissimo saggio di sociologia e di etnologia e antropologia come scienza dell’uomo sull’uomo, più un bellissimo saggio di psicologia. Con una bella motivazione storicosociale del particolare acume del pensiero degli ebrei, e con uno spruzzo di storia della Giamaica e di storia dell’agricoltura.
Nonché alcune interessanti considerazioni sul cosiddetto senso dell’onore, che ci possono spiegare l’origine storica economica e sociale di comportamenti frequenti anche qui in Italia.
C’è anche (ma non è la prima volta, ne ha parlato anche Mark Ames in Social killer, altro gran bel libro) la storia dell’invenzione della guerra biologica da parte dei coloni americani (un popolo profondamente etico da sempre, gli americani) che regalavano ai nativi coperte appositamente infettate dal vaiolo.
Il tutto costruito attraverso una serie di narrazioni infarcite di personaggi interessanti compresa una stupenda descrizione della New York di inizio Novecento che sembra quasi di leggere Dos Passos, e senza mai cedimenti o momenti di noia.
E alla fine si sono imparate un sacco di cose. Perfino sulla coltivazione del riso e sul perché i cinesi lavorano anche alla domenica. (blifil)




Se ci sono tanti ingegni quante teste, allora ci sono tanti generi d’amore quanti cuori. (Lev Nicolaevič Tolstoj, Anna Karenina)

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