sabato 29 settembre 2012

Juan Carlos Onetti


Juan Carlos Onetti, Gli addii. (SUR)

Una città sudamericana, in montagna, vicino alle montagne, non si capisce, comunque un posto con l’aria buona, ci vanno i malati di tubercolosi, ci sono tanti alberghi e il sanatorio.
Per poco che si dica d’altro, farei un sacco di spoiler, come già fa la brevissima prefazione, peraltro piuttosto bella e adatta al testo.
Che è una storia di speranze disperate, di solitudini distese una sull’altra, di silenzi parzialmente aperti su conversazioni che nella loro mancanza di rilievo non si lasciano in realtà scappare niente.
Stilisticamente sorprendente, un romanzo breve o meglio un racconto che avanza attraverso una foresta di incomprensibilità che la chiarezza e la semplicità della scrittura rendono ancora più incomprensibili.
Probabilmente in questa serena semplicità di linguaggio piano e trasparente Juan Carlos Onetti prende consapevolmente le distanze dal significato, rende il linguaggio impenetrabile.
E tutto, soprattutto la distanza dal significato, si apre con uno schianto brutale nell’ultimo significativo capitolo.
La prefazione di Antonio Muñoz Molina avvicina Gli addii a Il giro di vite di Henry James, ma non ci dice fino in fondo perché. Leggeremo il racconto di Onetti, ci troveremo le stesse distanze reciproche tra le persone che ci sono nel racconto di James, ma il vero perché lo scopriremo alla fine, fine brusca e violenta come quella della storia di James.
Di colpo nell’ultimo capitolo Onetti cambia stile, non ci sono più incertezze, non si sono più conversazioni oscure, tutto diventa chiaro.
Di una chiarezza netta e impenetrabile. Come sono impenetrabili le nostre anime, anche per noi stessi. (bamborino)

A pag. 20, pesos invece di peso, che ci sta proprio male.




Insomma, questa è una vita solitaria, nel migliore dei casi. (Philip K. Dick, La penultima verità)

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