giovedì 4 ottobre 2012

988 forever



Johann Sebastian Bach, Variazioni Goldberg BWV 988

Glenn Gould (1955) (Sony)

Keith Jarrett (ECM)

Anthony Newman (Digital Focus)

Ramin Bahrami (Decca)

Murray Perahia (Sony)

András Schiff (Decca)

Martin Stadtfeld (Sony)

Glenn Gould (1954) (Sony)

Glenn Gould (1959) (Sony)

Wanda Landowska (Sound Archive)

Claudio Arrau (RCA)

Angela Hewitt (Hyperion)

Dmitry Sitkovesky - Gérard Caussé - Misha Maisky (Orfeo)

Silke Strauf e Claas Harders (Raumklang)

Glenn Gould (1981) (Sony)


C’è un momento, quando l’autunno è già avanzato ma non ha ancora preso le sfumature di odori e di colori che preparano l’inverno, in cui le foglie dei pioppi sono di un giallo scuro che fa venire in mente una risata silenziosa.
C’è un momento in cui una luce bassa e localizzata come quella di una candela colora dello stesso giallo il lenzuolo, e disegna la spalla di quella donna e la curva del suo collo con una precisione che la luce centrale non saprebbe trovare.
C’è un momento, nell’Aria delle Variazioni Goldberg fatte da Glenn Gould nel 1955, in cui qualcosa di impensabile si distende tra il cielo e la terra, tra quello che siamo e quello che potevamo e che potremmo essere. Tra noi e Dio, forse.
E non c’è altro da dire. L’Aria finisce quasi senza che ce ne accorgiamo, quel momento di sospensione tra l’essere e il pensiero, tra il reale e il possibile si ferma, si distende nelle note in un momento di silenzio, un silenzio che Glenn Gould proclama al di sopra di tutto, come un arresto dell’intenzione, ed esplode la Variatio 1.
Da lì, saranno trenta tempeste dell’anima, trenta gioie e trenta disperazioni, fino al riposo dell’Aria da capo.
Poi si potrà ricominciare. Per tutta la vita.

Come l’amore per una persona non ferma il movimento di un cuore esorbitante e non impedisce svaghi e curiosità, così  nell’amore per Glenn Gould e per quest’opera di Bach ci sarà spazio per altre avventure. E la versione di Keith Jarrett è un’esperienza ineludibile, nel clavicembalo per cui le Variationen erano state scritte.
Keith Jarrett ce l’abbiamo dentro per le emozioni sontuose del Köln Concert, che non ritroveremo nel voluto distacco e nella voluta astensione da ogni soggettività interpretativa di questa esecuzione. Ma c’è la formidabile capacità di dare al clavicembalo una vivacità e una ricchezza espressiva da pianoforte, senza interruzioni.

La versione per clavicembalo di Anthony Newman ha il pregio della regolarità. Una bellezza semplice e invariabile dall’inizio alla fine, un po’ di elegante serenità che aiuta a sentirsi bene.

La versione di Ramin Bahrami è vivace festosa e prorompente ed è la più romantica di tutte, vedi come ci dà dentro con la Variatio 25 che a Glenn Gould non piaceva perché troppo chopiniana. Spesso arrivano delle mareggiate vicine a Artur Schnabel e nella Variatio 11 fa un piccolo miracolo, che comunque Glenn Gould ha già fatto in alcuni momenti di Il clavicembalo ben temperato, e trova un tocco così asciutto che il pianoforte sembra a tratti quasi uno strumento a fiato.

Ma l’enormità emotiva di Bach non arriva a tutti. Così sappiamo che esistono anche anime affascinate dallo zum pa pa del tre quarti verdiano preferibilmente con presenza di elefanti e altri animali veri sul palcoscenico, per non dire di coloro che si struggono per le militaresche e scoordinate obesità wagneriane. E non dimentichiamo gli intellettuali del Linn, che estasiati volgono lo sguardo al soffitto mentre Mahler schizza frammenti di musica (musica?) tra un altoparlante e l’altro.
Ora, se Glenn Gould può essere loro precluso per la condizione di trascendenza della sua musica, forse anche questi spiriti pagani potranno essere toccati dalla potenza immanente di Murray Perahia. Le sue Variazioni scivolano sotto la pelle con una tranquillità elegante, e mordono il cuore. 
Se Ramin Bahrami sorride, Murray Perahia svolge trentadue episodi di contenuta malinconia, che si aprono quasi alla disperazione nella Variatio 29 e nella 30. E nel punto sublime dell’Aria non esita, non tenta di afferrare l’inesprimibile, mantiene un’esecuzione corposa e affonda il coltello in una ferita emotiva che si è già aperta e che non si chiuderà facilmente nemmeno alla fine, dopo un’Aria da capo delicatissima. Forse la sua esecuzione è l’unica con una differenza profonda tra l’Aria e l’Aria da capo, e c’è un’interpretazione veramente sorprendente della Variatio 8.

Interprete commovente di Il clavicembalo ben temperato e delle Suites, in cui suona Bach con una dolcezza e un’intensità che a me fanno venire in mente Chopin, András Schiff è meravigliosamente chopiniano nella Variatio 25 ma  per il resto si lascia andare a una continua insopportabile languida morbidezza da cocktail party, che sembra di vedere una brigata di americani che chiacchierano e sorridono con il bicchiere in mano, con qualcuno che sta per mettere su un disco di Rachmaninoff, e se trasforma in un volo leggero la Variatio 5, cosparge tutto di fastidiose trillosità virtuosistiche, vedi Variatio 7, riduce in poltiglia le profonde intensità della Variatio 13, riesce a sgonfiare persino la solida solenne potenza della Variatio 30 e chiude con un’Aria da capo di totale sdilinquimento.

Martin Stadfeldt è ben consapevole delle proprie capacità di virtuoso, e probabilmente ha deciso di fargliela vedere, a Glenn Gould, suonando veloce come lui. Ma se la velocità non gli manca, gli manca l’anima ed è sempre semplicemente piatto, come nella 29 e nella 30, quando non trasforma la sua esecuzione, specialmente nella Variatio 5 e nella 26, in una farsa che non fa ridere e che dà l’impressione che stia prendendo in giro il capolavoro di Bach, mentre non si accorge di prendere in giro solo sé stesso.

L’ascolto della misteriosa registrazione di Glenn Gould del 1954 non aggiunge niente alla successiva del 1955. Ma può essere utile per vedere, cioè per sentire quale può essere stata la strada interiore che lo ha portato fino a quel 10 giugno negli studi Columbia di New York.

Così come la registrazione della sua esecuzione al Festival di Salisburgo del 1959 non è niente di importante, cioè non e niente di importante rispetto a Glenn Gould: secondo me è più o meno come la versione del 1955, solo un po’ fiacca, al confronto.

E si può andare ancora un po’ più indietro, fino alla registrazione di Wanda Landowska, a Parigi nel novembra 1933. Anno fatidico il 1933, in cui il Volk teutonico dava inizio al Reich millenario, che però sarebbe durato dodici anni (e sei milioni). Wanda Landowska suona un clavicembalo speciale, con il telaio di ferro e quindi con corde più grosse e più tese, fatto apposta per lei dalla famosa ditta Pleyel che faceva i pianoforti su cui suonava Chopin. Così il suono è parecchio diverso da quello di Keith Jarret e di Anthony Newman. Più profondo, più colorato, mi fa venire in mente l’organo. Wanda Landowska non è mai molto veloce ma è vivacissima, quasi buxtehudica , anche se dà un po’ l’idea che non gliene frega niente. Ma potrebbe essere stata lei ad aver fatto venire in mente a Claudio Arrau che il pianoforte poteva essere il prossimo passo. E forse Glenn Gould potrebbe essere partito da qui.

Secondo me Glenn Gould potrebbe essere partito da Wanda Landowska nel senso che la storica versione di Claudio Arrau la metterei in rapporto con quella di Keith Jarrett. Keith Jarrett suona il clavicembalo come un pianoforte, Claudio Arrau suona il pianoforte come un clavicembalo.

Tra tutti quelli che ho sentito, Angela Hewitt secondo me è l’unica che in qualche modo tiene il paragone con Glenn Gould. Mi dà come l’impressione che le dita si abbattano sui tasti verticalmente, le note sono sempre staccatissime e passa dalla leggerezza più leggera a momenti di formidabile violenza in un continuo scatto di tendini, che va dall’elettrificazione della Variatio 5 alla sospensione riflessiva della 13 alla forza selvaggia della 29, e riesce a dire sempre la sua senza forzare una ricerca di originalità ad ogni costo.
E secondo me solo lei e Glenn Gould riescono a suonare le trenta variazioni come se fossero composizioni indipendenti.
Angela Hewitt è stata la prima a suonare il CD 318 dopo la morte di Glenn Gould (vedi Katie Hafner, Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto), e forse dal suo pianoforte qualcosa è arrivato fino a lei. E vale la pena di guardare qualche foto, perché si capisce come suona già dalla faccia.

Quella di Sitkovesky - Caussé - Maisky è una trascrizione per violino viola e violoncello. Se in qualche modo è più esile ed emotivamente meno calda delle versioni per pianoforte, ha una giocosità danzante che salta addosso fin dalla Variatio 1 e prepara a bellissime sorprese. La 5 diventa leggerissima, la 8 qui è come non la si è mai sentita, la 19 è stupendamente pizzicata. Altra particolarità, che le tracce sono raggruppate tre a tre, le due variazioni e il canone.

Invece la Strauf - Harders, versione per due viole da gamba, pur essendo decisamente un’esecuzione per fanatici del BWV 988, ha una sua particolarissima intensità e una notevole potenza. E mentre la versione per violino viola e violoncello in un certo senso non è poi così distante dalle versioni per pianoforte o per clavicembalo, questa è veramente un altro pianeta, c’è un dolcissimo pizzicato nella Variatio 4 e la Variatio 10 qui è una vera meraviglia.
En passant, c’è una versione per viole da gamba anche dell’Arte della fuga BWV 1080, bella bellissima. 

Secondo me ci sono delle Variazioni particolari, dove si può sentire di più la differenza tra gli esecutori. Per esempio la Variatio 5, dove si richiede una velocità che può portare a strafare, e qui Stadfeldt ci dà dentro a tutta forza mentre Keith Jarrett sta elegantemente sulle sue, o la Variatio 26, in cui il lavoro frenetico della mano sinistra impedisce di comunicare emozioni a tutti tranne a Glenn Gould e a Angela Hewitt o la Variatio 29 in cui ciascuno trova diverse strade di esplosioni tempestose, o la Variatio 30, in cui si può decidere se stare su un piano di solennità o di dolcezza, e qui Angela Hewitt ci mette una potenza strepitosa mentre Glenn Gould in entrambe le sue esecuzioni comunica semplicemente quella che secondo me è l’idea della Perfezione. Ma si potrebbe continuare, e dire che la Variatio 8 è una di quelle in cui si vede con maggior chiarezza la differenza tra Glenn Gould e gli altri, la sua del 1955 è una tempesta, mentre nel 1981 scopre un tesoro nascosto nelle note della mano sinistra.
E poi c’è la Variatio 13, che per me è un modo di esprimere la totalità dell’esperienza della vita, e in cui ancora questo coinvolgimento esistenziale totale riesce in pieno solo a Glenn Gould e a Angela Hewitt, mentre Martin Stadfeldt ci fa un giochetto di saltelli e e András Schiff la annega in un fiume di leziosità.

Nel 1981 Glenn Gould travolge. La bellezza tumultuosa del 1955 diventa un’esplosività perentoria. L’Aria è asciutta, misurata, poi fin dalla prima nota della Variatio 1 la mano sinistra colpisce con una potenza imprevedibile, che non si fermerà fino alla fine. Arrivando alla meravigliosa ostensione della Variatio 10, con i bombardamenti della Variatio 20 e la forza straordinaria conferita alla 28, con il balzo in primo piano nella Variatio 29, fino alle grandiose mareggiate schnabeliane della Variatio 26.
Ed è questo cambiamento nel rapporto tra la sinistra e la destra che nella Variatio 13, dopo un inizio in leggerezza, ci trascina in una profondità emotiva fuori dalle possibilità della parola, per darci subito dopo il colpo dell’inizio della 14
Il discorso si chiude, tutto quello che si poteva dire della BWV 988 è definitivamente detto. E viene detto con un pianoforte da supermercato, uno Yamaha fabbricato in serie.
Glenn Gould morirà dopo un anno, il 4 ottobre del 1982. (blifil)

P.S. L’uso del verbo fare nella parte di questo post che tratta dell’esecuzione di Glenn Gould del 1955 non è una grezzità involontaria. Verbi come eseguire e suonare non mi sembravano in grado di rendere l’idea di quel che ha fatto Glenn Gould con questo punto fermo nella vicenda dello spirito umano. Ma anche dopo e sempre, Glenn Gould non ha mai suonato e non ha mai eseguito. Glenn Gould ha sempre fatto.




Secondo me è un mondo egoista quello che smania tanto per il brivido di piacere da quattro soldi che si prova nel fare un bebè. (J. P. Donleavy, Ginger Man)

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