mercoledì 24 ottobre 2012

Jane Austen


Jane Austen, Mansfield Park. (Garzanti)

Si parla tanto dell’ironia di Jane Austen.
E non ci si accorge che la zitella di Chawton non è stata solo ironia, spirito caustico e affilata capacità di delineare personaggi. Perché se si pensa alla discesa nei più reconditi recessi dell’animo umano, subito vengono in mente i foschi abissi dei sottosuoli dostoevskiani (se si scrive così). E ci si dimentica che non viviamo, si spera, un’esistenza tempestosa di scenate e di drammi con suicidio finale, ma in generale ci accontentiamo di tranquilli percorsi domestici, peraltro non meno intrisi di dolore esistenziale anche se certamente meno vistosi.
Credo di poter dire che Mansfield Park è una delle più penetranti opere di analisi psicologica che siano mai state scritte.
Un romanzo di sfumature, di sguardi silenziosi, di cose non dette. Che si svolge come certi film di Fassbinder quasi tutto nella stessa casa.
Non succede niente, come al solito per Jane Austen c’è solo qualcuno che s’innamora, qualcuno che crede di innamorarsi, qualcuno che fa il furbo, qualche carogna, qualche cretino, qualcuno più intelligente degli altri e qualcuno più scemo. La casa è lì, ci stanno dentro tutti, qualcuno parte e qualcuno arriva.
Non succede niente eppure il romanzo è una scarica di colpi di scena. Nei silenzi tranquilli dei rapporti interpersonali osservati dall’interno e dall’esterno dei personaggi, nei fremiti del pensiero e nelle esitazioni delle parole e dei gesti.
L’avventura più avventurosa, la vita di tutti i giorni. La difficoltà più difficile, cercare di capirsi e di capire gli altri.
Con la bomba, verso il finale e precisamente nel colloquio tra Mary Crawford e Edmund Bertram, che qualche volta capirsi e capire gli altri proprio non è possibile, e allora ci si accorge che in certi casi non è che gli altri sono come noi, hanno capito ma preferiscono una strada diversa, la vita li ha portati a non vedere il bene, o sono degli ipocriti. No.
Come dirà qualche anno dopo Hannah Arendt in La banalità del male, qualche volta, cioè spesso, qualcuno semplicemente non capisce. E allora scopriamo che una genialità assoluta come quella di Jane Austen, nella sua infinita capacità di studio della mente umana, non poteva rimanere estranea alle problematiche dell’etica. Che in Mansfield Park vengono affrontate con diversi risvolti e lasciate, come è filosoficamente giusto, nell’inesprimibilità del dubbio.
In un tormento reciproco che passa da un personaggio all’altro e scatena in chi legge una frenesia che di pagina in pagina cresce fino a diventare quasi angoscia, mentre la storia si muove in direzioni che lasciano sempre possibilità aperte.
Perché lo sappiamo, possiamo star tranquilli, nei romanzi di Jane Austen va sempre a finire che si sposano e sono più o meno tutti contenti, anche gli stronzi, ma qui fino all’ultimo momento non si può essere sicuri di niente, e anche se si sa che la storia va a finire bene, fino alla fine non si riesce a immaginare come, e sembra impossibile. (bamborino)

A pag. 3 abbiamo ; al posto di , e a pag.13 ha invece di ho, e a pag. 60 aveva invece di avevo. A pag. 117 abbiamo un punto dentro le virgolette e subito dopo, si fecero udire scritto due volte. A pag. 124 abbiamo per invece di perdo, a pag. 133 manca un più, a pag. 202 c’è un osceno soddisferà, a pag. 232 giunta invece di giunto, a pag. 244 c’è una virgola in più, o una virgola in meno. A pag. 291 manca un verbo, a pag. 294 c’è un maì, a pag. 320 quando invece di quanto, a pag. 410 un orrendo più prossimi, a pag. 466 c’è una invece di uno.
Ma mi è piaciuto molto uno sragionevole (che ricorda Michel Foucault) a pag.123 e un nove e mezza (la mezz’ora è femminile quando si parla e non capisco perché debba diventare maschile quando si scrive) a pag. 284.
Mentre protesto (e in questo ho avuto l’approvazione dei GMM, i Grammatici Militanti Milanesi, un’associazione gemellata con i Grammatici Militanti del Massachussets) per l’uso di essa al posto di ella in tutto il testo. Anche se non credo che i GMM approverebbero questi miei inizi di frasi con delle congiunzioni.
Devo aggiungere che la traduzione ha presentato altri due piccoli problemi. Uno, a pag. 151, con una scarsa chiarezza nel modo di tradurre can, che in inglese significa sia sapere che esser capaci. L’altro nel capitolo VII, dove ho trovato a pag. 68 un sorprendente “tagliarle il vino” che corrisponde a “mix the wine and water” del testo originale, e che viene tradotto secondo me molto meglio nell’edizione Newton da Maria Felicita Melchiorri (che usa ella invece di essa) con “mescerle l’acqua e il vino”.




Forse alcuni ricordi sono delle premonizioni più che episodi del passato. Forse ciò che ricordiamo è solamente una continua verità su di noi. (Helen Humphreys, La verità, soltanto la verità)

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