lunedì 15 ottobre 2012

Pier Paolo Pasolini


Pier Paolo Pasolini, Il sogno di una cosa. (Garzanti)

Per György Lukács, in Teoria del romanzo, l’età dell’epos è quella in cui l’agire degli uomini era in conformità con le istanze interiori dell’anima: volontà di grandezza, di espansione, di interezza. Quando essere e destino, avventura e perfezione, vita ed essenza erano concetti identici. E l’epica era la risposta alle domande sull’essenza della vita. Una risposta, dice Lukács, che i poemi omerici hanno dato prima che il cammino dello spirito nella storia rendesse esplicita la domanda.
Dai tempi di Omero lo spirito ha fatto un sacco di strada, e le sue domande sono diventate sempre più esplicite. La grandezza di questo capolavoro di Pasolini è nel mostrare come la risposta dell’epica sia in realtà possibile solo prima della domanda.
La domanda che, come dice Claude Lévi-Strauss in Tristi Tropici, comincia nel momento in cui nasce il lavoro, comincia con gli schiavi che tremila anni fa preparavano mattoni di fango per edificare i palazzi dei satrapi. Nel momento in cui la necessità dovuta ad un cambiamento della condizioni materiali dell’esistenza pone una domanda che ha la sua risposta solo in condizioni di vita anteriori.
E la risposta, nel romanzo di Pasolini, è nella vita semplice, dove con questo aggettivo non si intende fare un riferimento buonista a una condizione di vita bucolica, ma sottolineare la caratteristica assoluta di totale pienezza esistenziale di un mondo in cui la ripetitività significativa del gesto è la stessa ripetitività del discorso, gesti consueti e frasi fatte e luoghi comuni ripetuti lungo il corso di eventi sempre uguali.
La condizione culturale dell’oralità, si potrebbe dire con Walter Ong.
O la risposta bisogna cercarla nel momento in cui il cambiamento fa irruzione in un mondo che fino a quel punto è stato perfetto. E che ora non può più continuare a rigirarsi sulle frasi fatte, sui gesti ripetuti.
I contadini si confrontano col mondo, i giovani si confrontano con il futuro, qualcuno scopre la trasformazione di sé che nasce dall’amore. Ma credo che l’epitome di tutte le catastrofi esistenziali di questo romanzo sia proprio nel crollo del sogno più grosso, che è quello del paradiso comunista, che si scopre che è un posto dove si sta male, né più né meno di come si sta male nel paradiso capitalista.
Alla fine il romanzo si chiude su una morte, come la fine di un mondo.
Se ci ricordiamo che Pasolini era stato capace di esprimere il suo genio nella narrativa, nella poesia, nella critica sociale e nel cinema con capolavori assoluti come Accattone e Il Vangelo secondo Matteo, ci potrà venire in mente che si fosse profeticamente reso conto (vedi Scritti corsari) che quello che stava succedendo  tra gli anni Cinquanta e i Sessanta era il primo atto di qualcosa di profondamente oscuro, che stava portando il mondo verso un cambiamento paragonabile a quello cui fa riferimento Lévy-Strauss: di nuovo, l’umanità stava abbandonando un sogno che conteneva in qualche modo un senso dell’esistenza che stava per essere irrimediabilmente perduto.
La rivolta contro i padroni riesce, ma è un successo che apre un futuro di trasformazioni inarrestabili.
E allora ci si accorge che probabilmente Il sogno di una cosa non racconta solo la fine di un mondo dell’epica della semplicità contadina che viene travolto dal miracolo economico degli anni Cinquanta che prepara il capitalismo del consenso massmediatico, ma fa esplodere il disastro nella personale fine della semplicità epica della vita di tutti, la fine del tempo in cui non ci si fanno domande sull’essenza della vita perché l’essenza della vita ce l’abbiamo tutta in mano, la fine della giovinezza.
Che è prossima ad essere perduta, perché stanno per arrivare le giovinezze svuotate delle sit-com dei reality e dei videogiochi. E dell’eroina e della cocaina.
Ed è per questo forse che le ultime pagine sono così cariche di dolore: Eligio muore, una morte in ospedale indimenticabile come quella che c’è in Ragazzi di vita, e con Eligio muore una parte della nostra vita, l’epoca in cui la nostra vita è stata così semplicemente intensa che nella sua intensità non lasciava tutto quello spazio per il pensiero, e per le domande, che avremmo trovato dopo, senza trovare risposte.
O trovando come risposta il silenzio davanti a un televisore. Un oggetto che in Il sogno di una cosa è ancora di là da venire.
E in questo romanzo tutto ha un’intensità spaventosa, le luci, le case, i paesaggi di sfondo, le persone, i movimenti, le risate, la musica, gli oggetti, un bicchiere che cade, il vino, le biciclette, l’alba e la notte, la pioggia, il sole, tutto.
Ma come dell’intensità della giovinezza, ce ne accorgiamo solo dopo la fine, quando il pensiero torna indietro, come a un mondo irrimediabilmente perduto. (bamborino)

Quasi incredibile, i due soli errori sono entrambi accenti gravi invece che acuti, a pag. 196 e a pag. 214.




La libertà non è un’invenzione giuridica né un tesoro filosofico, proprietà esclusiva di civiltà più valide di altre, perché sole capaci di produrla e preservarla. Essa risulta da una relazione oggettiva tra l’individuo e lo spazio che occupa, tra il consumatore e le risorse di cui dispone. (Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici)

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