venerdì 9 novembre 2012

Peter Molloy


Peter Molloy, La vita ai tempi del comunismo. (Bruno Mondadori)

Sottotitolo, Interviste vent’anni dopo.
Che non sono vere e proprie interviste, ma il libro si snoda comunque attraverso le testimonianze di persone che hanno fatto la storia dell’Europa comunista, chi nel suo piccolo e chi nel suo grande.
E vale la pena, di dare uno sguardo al passato perché come dice anche Marc Augé in Che fine ha fatto il futuro?, dal 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, comincia una nuova storia che fatichiamo a capire, perché procede troppo in fretta e riguarda direttamente e immediatamente tutto il pianeta.
Si comincia con la Trabant in copertina, che forse non tutti sanno che aveva il motore a due tempi e la carrozzeria di plastica, una plasticona spessa e pesante, e dopo la Trabant qui ci sono tutti, dai capi di stato ai minatori, dai poliziotti ai cantanti, dai medici alle attrici, dai generali agli architetti. Anche i capi di stato, sì. C’è anche il cuoco di un capo di stato. Con la serena obiettività di dare la parola agli oppositori e ai sostenitori, a quelli che si lamentavano allora e a quelli che si lamentano adesso.
Bellissimo libro, perché la politica e la storia qui si vanno dipanando in credibilissimi racconti di vita quotidiana e una pagina dopo l’altra ci offrono un sacco di sorprese.
Una fra tutte, che nella DDR, o Repubblica Democratica Tedesca o Germania dell’Est, il servizio militare obbligatorio è stato introdotto solo nel 1961, dopo la costruzione del Muro di Berlino e l’obiezione di coscienza è stata comunque sempre ammessa. Non solo, se si andava in galera anche per motivi politici e anche nel caso che si fosse un sacerdote, la famiglia continuava a ricevere lo stipendio, e alla fine della detenzione si veniva immediatamente reintegrati nel proprio posto di lavoro.
Un’altra, che sempre nella DDR c’erano spiagge per nudisti e nelle case di riposo si davano spettacoli di spogliarello. Leggere per credere.
Altra sorpresa, che la Romania di Nicolae Ceauşescu era un piccolo vero inferno. Che in Romania non fosse facile nemmeno trovare da mangiare, dopo la fine delle balle che ci dicevano qui descrivendola come un paradiso solo perché Ceauşescu non andava d’accordo con l’Unione Sovietica, che in Romania non si stava bene lo sapevamo già, ma qui salta fuori che la Romania non era un semplice inferno comunista, ma un inferno veramente infernale più o meno da tutti i punti di vista. Per esempio, che se una donna andava in ospedale per una visita ginecologica, poteva arrivare subito un poliziotto per controllare che non avesse abortito di recente. Anche in questo caso, leggere per credere.
Si parla soprattutto di Romania e di DDR, molto meno della Cecoslovacchia. Però la posizione della Cecoslovacchia, rispetto al resto del libro, secondo me ha il massimo rilievo, perché è nel caso della Cecoslovacchia che la sostanziale obiettività o la sostanziale equanimità o perlomeno la sostanziale abilità di Peter Molloy nel dare un colpo al cerchio e uno alla botte saltano fuori in pieno.
Cioè se il discorso generale sulla DDR fa pensare che qualcuno potrebbe prendere in seria considerazione l’ipotesi che in quel paese e in quegli anni si sia stati vicini alla realizzazione dell’utopia e del "bei sich sein" hegeliano come mai nella storia dell’umanità, quando passa alla Cecoslovacchia Molloy cambia completamente le carte in tavola e mette in atto un’operazione di riscrittura della storia tipo quelle profetizzate da George Orwell in 1984. Riscrittura che consiste nel dire che Václav Havel, primo presidente della Repubblica Ceca nel 1989, è nato in una potente famiglia borghese di Praga e che, identificato come nemico di classe quando nel 1948 i comunisti presero il potere, non poté terminare gli studi superiori. Che sono balle, cioè è vero ma manca un piccolo e non irrilevante dettaglio, perché il racconto di Molloy copre il fatto che la famiglia Havel era sì potente, ma tanto potente da essere una delle più potenti di allora, e si era distinta per la sua intensa collaborazione con i nazisti occupanti. Quindi la famiglia Havel, altro che nemici di classe perché erano ricchi. Del resto mi sembra doveroso riconoscere che ci possono essere nella vita di tutti dei momenti buoni e dei momenti cattivi, e se parecchi bambini erano diventati orfani e poveri perché i tedeschi gli avevano ammazzato il papà e i collaborazionisti avevano dato una mano, a qualche bambino poteva capitare che da ricco che era diventava povero e non poteva andare a scuola. Che se vogliamo non è mica poi niente di straordinario, ci sono posti dove se si è poveri non si può andare a scuola, e sarà ben possibile che ci siano posti dove non si può andare a scuola se si è ricchi.
Comunque nel 1989 le cose sono state rimesse a posto, e la Cecoslovacchia, dalla direzione di persone come Miloš Jakeš, ex operaio della Bata, è tornata ad avere tra i propri dirigenti un membro della famiglia Havel.
Ma forse, sotto a qualsiasi idea che cerchiamo di farci di questo periodo storico, sotto c’è una questione più grossa, che è quella della possibilità dell’utopia.
Tornando alla DDR, questo libro ci mette davanti altri due fatti, che si ingranano con quelli già segnalati e che invitano, nel loro contesto, a un minimo di sforzo interpretativo.
Uno, che un sistema che rispettava la persona al punto da mantenere lo stipendio di un avversario politico incarcerato, per poi reintegrarlo immediatamente nelle sue mansioni una volta scontata la pena, se questo stesso sistema per scopi sportivi infarciva di ormoni, a sua insaputa, una ragazza, al punto di farla gradualmente diventare un maschio (leggere per credere, la storia di Heidi/Andreas Kreiger), ecco che si presenta la domanda, se una cosa possa essere in realtà disgiunta dall’altra, ovvero se l’idea dell’utopia non contenga comunque in sé qualcosa di sostanzialmente orribile.
L’altro, più inquietante, che un cittadino su sei fosse praticamente un agente della Stasi, gruppi punk compresi, cosa che rimanda ancora una volta a quel profeta della postmodernità se non addirittura della surmodernità che è stato Philip Dick, in questo caso con il romanzo Un oscuro scrutare. Cioè, dove tutti controllano tutti, ci si domanda chi controlla chi e cosa, e se pensiamo al Tutor delle autostrade e alle nostre città con una telecamera ogni quattordici abitanti, ci possiamo domandare qual è la differenza. Ovvero, se il comunismo è stato un sistema sociale ed economico realmente diverso dal nostro, o non è stato piuttosto, come diceva Guy Débord, semplicemente un altro dei modi di essere della società dello Spettacolo. Ovvero ancora, passando da Guy Débord a Noam Chomsky, se a un certo punto il marxismo non sia diventato qualcosa di molto simile a una forma di religione organizzata.
E ancora, ci possiamo domandare quante probabilità ci sono che quello che è successo nei paesi comunisti succeda anche qui. Cioè che il sistema si sfaldi da sé quando meno ce lo aspettiamo.
Perché se ci guardiamo intorno con un po’ di attenzione, di cose che si stanno sfaldando o che perlomeno stanno perdendo le rigide organizzazioni verticali e compartimentate che credevamo immutabili, ce ne sono parecchie.
Pensiamo a cosa rappresenta un fatto come la Wikipedia, per esempio.
In questo libro ci sono comunque due cose che mi hanno lasciato a bocca aperta. La prima è che si sostiene (leggere per credere, pag.147) che durante gli anni della dittatura di Ceauşescu l’ingegner Iordachescu in una sola notte spostò un condominio di otto piani senza che gli abitanti se ne accorgessero, tanto che la mattina dopo si svegliarono nella nuova ubicazione, e va bene che Ceauşescu era un vero demonio, ma questa mi sembra un po’ troppo grossa. La seconda è che pare assodato, con tanto di studi statistici, che le donne della DDR all’epoca di Honecker avevano più frequenti orgasmi delle donne occidentali.
Chiudo con questa bella notizia, che fa il paio con la bellissima storia d’amore di Regina Kaiser (sic) e Uwe Karlstedt, lei accusata di spionaggio e lui ufficiale della Stasi che la interrogava, che perdono la testa l’una per l’altro al primo sguardo, e cosa succede dopo bisogna leggere perché è una cosa che a Hollywood ci dovrebbero fare un film.
E comunque non so se mi sono spiegato, ma credo di sì, e secondo me questo è un libro che veramente vale la pena e i soldi, anche solo per un minimo di sbifolcamento e per migliorarsi un po’ la conversazione. (bamborino)

P.S. Non tutto il male viene per nuocere. Così anche nel buio pestu dei tempi di Ceauşescu ci fu del buono, oltretutto generato appunto dalla follia del dittatore, che a un certo punto pretese che le arti rumene si dovessero sostanziare solo nel patrimonio della tradizione nazionale. Problema gravissimo per i musicisti di rock perché ciò significava o smettere di suonare o andare in galera. Ma il gruppo dei Phoenix seppe dar vita, in questo difficile frangente, a uno stile unico, che unì il rock al recupero di materiali musicali e testuali del più antico folklore autoctono.

Valeva la pena di sentirli e di vederli, ma YouTube ha chiuso l’account per ripetute violazioni del diritto d’autore, che non so cosa voglia dire, e sono veramente formidabili anche e forse soprattutto adesso, da vecchi, con il chitarrista che sostiene la Les Paul con una bandoliera con tanto di proiettili e il batterista con il golfino.
E che differenza, rispetto ai recuperatori folclorici nostrani.




L’esistenza del passato dipende dalla quantità di presente che gli affidiamo. (Juan Carlos Onetti, Gli addii)

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