sabato 9 febbraio 2013

Richard Yates


Richard Yates, Undici solitudini. (minimum fax)

Il titolo originale è Eleven Kinds of Loneliness.
Cioè la solitudine è al singolare. In un certo senso, come se fosse una sola.
Sempre la stessa. Ma kind è una parola forte, vuol dire genere nel senso di specie, come genere profondamente diverso dagli altri. Come il genere umano, human kind, composto di individui tutti della stessa specie ma diversi gli uni dagli altri. Azzardo quindi un’interpretazione del titolo di questo capolavoro di Richard Yates, che forse voleva dire che la solitudine è sempre la stessa, ma che per ognuno di noi la sua è profondamente diversa da tutte le altre.
Perché queste sono solitudini accomunate dall’impossibilità di comprendere gli altri e di comunicare con loro. Che è proprio una cosa che è sempre diversa per ogni persona.
Come la sensazione di non essere compresi dagli altri.
Comprendere nel senso di prendere con, far parte in qualche modo dello stesso mondo.
Mentre invece siamo comunque monadi, povere monadi che girano in orbite diverse e lontane.
Undici racconti della più alta perfezione stilistica e formale, di un tale livello di perfezione che l’unico racconto che sembra avere delle piccole fratture di ritmo, ci si accorge confrontandolo con gli altri che le fratture sono sostanziali alla narrazione di un così grave scarto tra uno dei due personaggi principali e il resto del mondo, e tra il resto del mondo e lui, e tra l’altro personaggio principale e lui e il resto del mondo, un così grave scarto che il susseguirsi dei fatti non può non dar luogo ad azioni che non trovano nessun punto di armonia e generano come rumori stridenti tra una parola e l’altra. E lascio a chi legge il libro di decidere nella propria autonoma solitudine quale sia il racconto in questione.
Ma di questi racconti è troppo difficile dire, dire anche poco. Si può parlare del crollo di due comunicazioni reciprocamente impossibili che si sfasciano addosso a una valigia nuova in Tutto il bene possibile, lui è un coglione come tanti e lei è una povera stronza ma sono tutti e due disperati. Si può parlare del finale di Nessun dolore in cui solitudine e non comprensione cercano sollievo dove sanno benissimo che non ce n’è, si può parlare delle solitudini di Contro i pescicani che si intersecano tra di loro e appaiono necessarie alla vita come l’aria per respirare, e del finale di Un buon pianista di jazz in cui di colpo lo sfigato grasso si rende conto che il suo amico bello e brillante non è diverso da lui. Si può dire qualcosa delle solitudini multiple di Abbasso il vecchio!.
Se poi la difficoltà del dire non nasce proprio dalla semplicissima piattezza degli avvenimenti della narrazione, che è la semplicissima drammatica piattezza del vivere di tutti i giorni. Che qui si condensa appunto in una festa di auguri per un matrimonio, in una mattinata in spiaggia, nelle giornate di un tassista e di uno scrittore fallito.
Ma poi forse l’eleganza perfetta dello stile della forma e del ritmo dei racconti di Yates è, semplicemente, l’ineluttabile semplice immanente eleganza della nostra vita, che è quella che è e non poteva essere diversa.
Si arriva alla fine di ogni racconto scivolando dolcemente, senza rendersi conto dell’avvicinarsi della catastrofe.
E si arriva alla fine dell’ultimo racconto con un dubbio, che il muro che ci tiene separati gli uni dagli altri forse è più fragile di quel che ci sembra, e che forse, come dice Yates chiudendo la sua opera, Dio lo sa che una finestra ci dovrebbe essere da qualche parte, per ciascuno di noi. (bamborino, allemanda)




Se un’opera letteraria è discretamente buona, sconvolge in qualche modo il nostro mondo, ci fa riflettere sui fondamenti della vita, la precarietà dei rapporti umani, la fragilità e la contemporanea inesorabilità dell’esistenza, l’imminenza della morte. (Walter J. Ong, Conversazione sul linguaggio)

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