domenica 3 marzo 2013

Giorgio Falco, Giovanni Testori


Giorgio Falco, L’ubicazione del bene. (Einaudi)

Giovanni Testori, Il ponte della Ghisolfa. (Mondadori)


Giorgio Falco non ci porta fino a Sarajevo. Una decisione poco commerciale, come poco commerciale è la decisione di non toccare i nostri più nobili e profondi sentimenti. Anzi, Giorgio Falco si allontana pericolosamente dagli abituali territori del sentire comune, e ci obbliga a gironzolare nei dintorni di Milano.
Ecco.
Finalmente qualcuno che parla dello schifo delle villette a schiera, della difficoltà di pagare il mutuo, delle tristezze delle code ai semafori il lunedì mattina, dell’allegria domenicale (vedi anche René Girard, La violenza e il Sacro) di passare ingruppati per code assolutamente identiche a quelle del lunedì.
Della famiglia come insieme di persone che tutto sommato stanno insieme perché a un certo punto hanno deciso di farsi un progetto esistenziale ordinato con dentro tutto quello che ci vuole, i figli e il cane.
Il cane. In tutti questi racconti ci sono cani e altri animali domestici e non domestici. Animali mostruosi come il pesce da combattimento o animali normalissimi ma trattati in maniera mostruosa come i pulcini surgelati vivi. E il rapporto mostruoso degli uomini con gli animali è il filo rosso che unisce queste storie e rimarca una condizione esistenziale assurda e rimanda alle visioni profetiche di Philip K. Dick in Ma gli androidi sognano pecore elettriche?. Cioè rimanda al mondo in cui viviamo, perché i pulcini surgelati vivi come cibo per i serpenti li vendono davvero.
Si potrebbe dire che sono storie di sopravvivenza invece che di vita. Storie di solitudini, ma su questa parola viene in mente subito un confronto con i racconti di Undici solitudini di Richard Yates e allora ti accorgi che in questi racconti di Giorgio Falco non c’è la solitudine, c’è un’altra cosa che forse è peggio. Sono storie di isolamento. Isolamento suburbano in mezzo allo stronzismo.
Ecco, storie di isolamento e di stronzismo.
Di uno stronzismo diffuso in una maniera così capillare e pervasiva da spalmare di stronzi di cane veri e tangibili i marciapiedi, e persino il protagonista del primo racconto non saprei come dire, in questo racconto in fondo lo stronzo è lui, ma almeno in qualche modo a tirarsi fuori ci prova, e non ci riesce, e forse non ci riesce proprio per questo, perché nuota in un mare di stronzi. Bellissimo questo primo racconto, Onde a bassa frequenza, e non credo che sia casuale che l’eroe, Pietro, tenti di cambiar vita mettendosi in proprio con un’impresa (anche qui gli animali) di derattizzazione e disinfestazione: forse è il simbolo della volontà di ripulirsi dal suo schifo personale, e di pulire anche quello che ha intorno.
E c’è anche in tutte le storie il confronto sottile e continuo tra il mondo com’era prima e il mondo com’è diventato, senza il tentativo di dare una spiegazione. Rimane tutto in sospeso, nell’inesplicabilità quotidiana di un disastro senza senso, fino alle ultime parole dell’ultimo racconto, la storia di un uomo isolato del mondo di adesso che attraversa un mare di stronzi di cane per andare da un uomo isolato del mondo di prima, e l’uomo vecchio forse rompe il suo isolamento e forse chiede all’uomo giovane di fare altrettanto, e chiude il libro sulla nota lieta di questa richiesta semplicissima nella sua assurdità.
Insomma arriviamo a perdonare gli inserti di buonismo psichiatrico e diciamo che questo è un gran bel libro, e tanto bello non solo per la presa di posizione socioesistenziale, ma anche proprio per la bellezza di uno scrivere facile e svelto e sicuro e senza pretese e che peccato che la lettura duri così poco.

Giorgio Falco ha messo le sue storie a Cortesforza, poco fuori Milano, perché dentro Milano oramai non ci si può mettere più niente, e men che meno qualcosa che vuol parlare della vita.
E se Cortesforza era un paese e adesso è diventata semplicemente un posto, anche Milano adesso è un posto ma è stata una città.
Una città dove c’erano le fabbriche che facevano le cose. C’era l’Innocenti che poi è diventata la INNSE, la Breda, l’Alfa Romeo, l’Ansaldo, la Pirelli, la Brown Boveri, la Motta e l’Alemagna, c’era più o meno tutta l’industria farmaceutica italiana. C’era un’infinità di fabbriche medie piccole e piccolissime, ce n’erano dappertutto, fino alla cerchia delle mura spagnole, come la Gavoni che faceva marmitte per auto vicino a corso Vercelli e che adesso mi pare che sia diventata una palestra, c’erano case che avevano fabbriche nel cortile, fabbriche che anche quelle facevano cose, per conto loro o per le fabbriche più grandi. E come finiva Milano cominciava subito Sesto San Giovanni, che aveva la Magneti Marelli e soprattutto la Falck, c’erano addirittura dei treni che portavano la roba da uno stabilimento all’altro della Falck.
C’era la gente che abitava nei quartieri popolari della periferia, e c’era il centro dove i ricchi e i poveri vivevano vicino, case di lusso e case di ringhiera attaccate le une alle altre.
C’erano i bar dove quelli del quartiere si trovavano alla sera.
Il ponte della Ghisolfa racconta tutta questa vita con una potenza assoluta e commovente, in uno stile a scatti che insiste sui gesti, sui pensieri che si rigirano su sé stessi, in un’attenzione al dettaglio e alla ripetizione del dettaglio che sfiora il minimalismo.
Storie d’amore che vanno bene e che vanno male, storie di lavoro e di sport per scappare dal lavoro, storie di piccola malavita, storie di sesso e d’amore in cui non si capisce, proprio come non si capisce nella vita, dov’è il confine tra l’uno e l’altro.
C’è anche un meraviglioso brevissimo istante domestico che tocca i vertici della prosa poetica, messo lì come racconto a parte a interrompere una storia torbida e pesante. Come poesia può essere considerata la semplicissima storia di un amore nascente, tra la fabbrica e la balera.
E c’è una continua sensazione di sorpresa, nella profonda banalità dei fatti raccontati, che trasferisce nel lettore questa continua sorpresa che è la vita quando viene raccontata per quello che è veramente.
A questo livello, l’unico termine di paragone di questo capolavoro secondo noi è un altro capolavoro come Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini.
Ma gli anni Cinquanta erano tempi in cui non si poteva prescindere, nella cosiddetta cultura italiana, da due tipi di influenza pretesca e cioè innanzitutto dai preti veri e in secondo luogo dal picì, termine tuttora imprescindibile, ma che adesso vuol dire personal computer e allora voleva dire Partito Comunista, e purtroppo Giovanni Testori nei confronti dei preti ha avuto due gravi problemi, più o meno come Pasolini, cioè che bene o male nelle sue opere il sesso ha la presenza che ha nella vita di tutti i giorni, cioè una presenza forte, e l’altro che era di non avere la tessera giusta, nel senso che Testori nel picì non c’è mai stato, e Pasolini l’hanno sbattuto fuori. Così Giovanni Testori e Pier Paolo Pasolini sono finiti l’uno più o meno completamente dimenticato e l’altro in seconda fila, mentre un altro che oltre a non occuparsi di sesso aveva la tessera giusta e l’ha poi buttata via al momento buono, è diventato uno degli scrittori italiani più considerati del Novecento, anche se la sua opera si distende tra la favola con trovatine postmoderne e le sparate intellettualistiche con arzigogoli pseudofilosofici e nella sua incursione nei territori dell’esistere metropolitano si è tenuto ben lontano dai temi del disagio popolare e da bravo intellettuale di sinistra ha preferito sguazzare nei buonismi di Marcovaldo, immediatamente accolto dalle antologie scolastiche. O forse proprio perché la sua opera, cioè come sopra.
Ma c’è tempo, c’è sempre tempo per la letteratura e per chi, come Laclos, ha la consapevolezza dell’eco che lascerà dopo la sua morte.
Queste due opere parlano di Milano e di vita, tutte e due con la stessa struttura di racconti che costituiscono una specie di romanzo frammentato, con una tristissima profonda differenza tra l’una e l’altra.
Perché se è vero che la vita di tutti i giorni è durissima sia nell’opera di Giorgio Falco che in quella di Giovanni Testori, e che in tutte e due “Dopotutto la questione si riduce a quello che uno può o non può fare: a quello e basta” (che è l’explicit di Il ponte della Ghisolfa) e alla fine come dice George Steiner in Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero comunque non si va da nessuna parte, è vero che in Testori le storie e le persone appaiono immerse in una sorta di realtà ordinata o orientata in un senso storico, mentre in Falco questa specie di ordine è stato sostituito dalla frammentazione, esemplificata fisicamente nel passaggio dai casermoni popolari della vecchia Milano alle villette che ville non sono, e negli interstizi di questa frammentazione il senso storico e la tensione verso il futuro si sono perduti (vedi Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro?) in un passato pietrificato e in un presente senza possibilità di evoluzione, e in Il ponte della Ghisolfa c’è comunque una qualche sorta di speranza, che qualcosa di bello ci può essere e c’è, mentre in L’ubicazione del bene di speranza non ce n’è.
Milano non è più come una volta. Il mondo non è più come una volta. (bamborino, apopone) 

In L’ubicazione del bene purtroppo c’è il solito bruttissimo inusuale a pag. 31 ma a parte questo, abbiamo in mano un vero gioiello. Perché signore e signori, qui a pag. 6 troviamo le otto e mezza, a pag. 20 le sette e mezza, e poi il tripudio delle mezz’ore al femminile continua, che io non ho mai capito perché nei libri la mezz’ora diventa sempre maschile, sette e mezzo per esempio, visto che nessuno parla così. Ma non basta, perché da queste pagine risplendono a pag. 131 un èra nel senso dell’epoca, e a pag. 137 un bel dànno e a pag. 140 un bel dài, in quanto forme verbali. Bellissimo.

In Il ponte della Ghisolfa abbiamo uno spazio mancante a pag. 13, un sopraffato a pag. 37 e un Cinar a pag. 60. Ci sono anche un sacco di pronomi sbagliati, ma sono tutti nello stesso racconto e ci stanno per la parlata popolare, ma se va bene per i pronomi e personalmente trovo bellissimi la scorengia a pag. 90 e il culatone con una sola t poco dopo, secondo me Giovanni Testori la bestemmia a pag. 92 ce la poteva risparmiare.




È la società a decidere chi è pazzo e chi non lo è, e per conseguenza bisogna adeguarsi. (Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo)

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