sabato 27 aprile 2013

William Faulkner


William Cuthbert Faulkner, Palme selvagge. (Adelphi)


“Mi hanno mandato via per turpitudine morale da un posto che esiste proprio a causa della turpitudine morale”

Credo che nel colossale lavoro di William Faulkner sulla struttura narrativa questo romanzo occupi una posizione particolare. Infatti qui Faulkner non si preoccupa particolarmente di destrutturare la forma della narrazione (salti temporali, frammenti di realtà, espressioni di stati mentali) ma accosta due storie indipendenti raccontandole a capitoli alternati. Viene cioè messa in discussione la macrostruttura del romanzo come unità spazio-temporale e poco o niente invece  la microstruttura della narrazione.
Certo le storie hanno e potrebbero avere vita autonoma, cioè al di fuori del loro intreccio. Sicuramente però il ritmo (o forse meglio, il respiro) unico di questo romanzo non ha nulla di casuale e si materializza innanzitutto attraverso  questa scelta.
“Palme selvagge” e  “Il vecchio” sono i titoli di tutti i capitoli. Le Palme che sferzate dal vento con il loro sbattere secco e nevrotico accompagnano la prima coppia verso la propria distruzione e il Vecchio (che poi è il fiume Mississippi) che  determina la vita della seconda coppia in balia della sua esondazione. 
Frenesia e lentezza, parole e silenzi, si alternano in visioni della realtà che non si manifestano in una pluralità soggettiva  e contraddittoria (come in L'urlo e il furore o Mentre morivo) ma in storie diverse che mettono a fuoco visioni attigue.
Non c’è insomma una realtà espressa da più punti di vista ma due vicende che esprimono la stessa realtà in cui ognuno si dibatte a modo suo con la sola scelta fra il dolore e il nulla. Tutto questo senza pretese di comprenderla, la realtà, ma costretti a vagolare, a smarrirsi o meglio a naufragarcisi dentro, perché Faulkner non è mai univoco, definitivo.
Anche per questi motivi la seconda di copertina di Adelphi che ci fornisce la “risposta definitiva” di Kundera su Palme selvagge lascia quanto meno sconcertati (specie supponendo che Kundera abbia letto il libro): sul fatto che nelle due storie “non ci sia una qualunque percettibile affinità di motivi o temi” ci sarebbe parecchio da ridire perché i temi della nascita, della desolazione, dell’emarginazione, del coraggio, della solitudine e della rinuncia alla fuga permeano tutte e due le storie.
Le due vicende anzi quasi si sfiorano attorno alla metà del libro, con la nascita del bambino da una parte e l’aborto dall’altra. Così il “Non hai neanche il coraggio delle tue fornicazioni” della prima storia sembra un presagio che si rivela mentre nella seconda il forzato è l’unico che per un unico e breve momento, quello della nascita, sembra trovare il senso delle cose quando rimane a “guardare quella minuscola creatura del colore della terracotta che non assomigliava a nulla, pensando, E questo è tutto. Ecco che cosa mi ha staccato da tutto quello che conoscevo e che non desideravo lasciare e mi ha lanciato in un ambiente ch’ero fatto per temere, per raggiungere infine un posto che non avevo mai visto e dove non so nemmeno dove sono.
Insomma, forse il senso o ciò che più gli assomiglia, è nella vita in sé stessa. A prescindere. Nella carne. Anche perché “se la memoria esiste al di fuori della carne non sarà memoria perché non saprà cosa ricorda... ”
Per questo “tra il dolore e il nulla sceglierò il dolore”. (apopone)




È sempre più difficile trovare arte che riguardi le cose vere. (David Foster Wallace, Infinite Jest)

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