domenica 12 maggio 2013

Jeremy Rifkin


Jeremy Rifkin, La fine del lavoro. (Mondadori)

Il mio telefonino costa 49 euro.
Fa da orologio, da sveglia, da timer, da calcolatrice. Contiene la possibilità di farsi un’agenda e di prendere note e di trasferire i testi, c’è la radio, ci sono i giochi, credo che possa navigare in Internet, fa le fotografie, può essere utilizzato anche come registratore ambientale.
Tutte cose che un tempo richiedevano localizzazioni e oggetti diversi.
Quindi se si può dire che la tecnologia ha generato nuovi posti di lavoro, penso che solo un cretino potrebbe non rendersi conto del numero molto superiore dei posti di lavoro che ha fatto e fa perdere, dalle fabbriche di orologi alle fabbriche di agende alle fabbriche di radio.
Con tutto il resto che comporta, questo miglioramento tecnologico, nell’organizzazione del tempo e dello spazio di tutto il genere umano, vedi Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare.
E poi ci sono tutte le balle che ci raccontano sulla crisi e la recessione. Che sarebbero cominciate nel 2008.
Punching Out di Paul Clemens (punch out è il nordamericano per l’inglese clock out, timbrare il cartellino in uscita) racconta la storia dello smantellamento degli impianti della Budd Company a Detroit, che produceva carrozzerie e altri componenti per l’industria automobilistica. Nel prologo, si racconta di Jon Clark che, per offrire occasioni di lavoro a tutti quelli che si occupavano di demolizioni smatellamenti e trasporti, nel 2003 cominciò a pubblicare una newsletter, Plant Closing News, e prometteva agli abbonati che sarebbe stato in grado di dare notizie dettagliate di 25 chiusure di impianti al mese, 300 all’anno. Nel 2003 riferì di 983 chiusure, l’anno dopo 1130 e l’anno successivo 1180.

Se gli impianti smontati di Punching Out vengono spediti in Messico, e un libro come questo porta ineluttabilmente a pensare che la nostra crisi e la fine del nostro lavoro siano essenzialmente legate al trasferimento di attività industriali nei paesi poveri, il discorso di Jeremy Rifkin è più vasto, e gira soprattutto intorno agli effetti della tecnologia nella riorganizzazione e nella razionalizzazione della produzione e della distribuzione, effetti valutati nei termini del rapporto tra l’evoluzione tecnologica e il significato del lavoro nella vita delle persone.

Discorso al quale mi viene in mente di fare un’aggiunta personale, con una riflessione su un genere di lavoro particolare, nato non molto tempo fa e che potrebbe anche essere arrivato vicino alla fine, che è il lavoro legato al diritto d’autore, per cui chi scrive un libro o fa della musica, si trova a guadagnare per così dire anche da fermo, cioè il libro o la musica la fa una volta sola, e poi il prodotto continua a rendere denaro per un pezzo, e quindi ci si potrebbe domandare chi lavora in questo caso, l’autore o tutti gli altri, e rimando per approfondimenti a Contro il lavoro di Philippe Godard, a proposito del quale già si è detto come ci siano stati notevoli cambiamenti dell’idea di lavoro. Discorso sui cambiamenti che se vogliamo riguarda anche chi guadagna denaro mettendo la propria faccia nella pubblicità, anche qui dopo l’inizio lavorano tutti meno che lui/lei, ma lui/lei fanno un sacco di soldi, mentre noi in onore della bella faccia paghiamo di più quello che comperiamo.
Ma in questo libro c’è ben altro e molto di più, tanto che nel 1995 Jeremy Rifkin dice che stiamo per entrare in una nuova fase della storia del mondo, e si è visto che aveva ragione.
Innanzitutto perché dà una possibile e attendibile spiegazione della crisi del ’29, che paragona alla crisi attuale per la sua origine da un’estensione mostruosa del credito al consumo, e oltre alla spiegazione Rifkin ci mostra con molta chiarezza come secondo lui in realtà la crisi del ’29 non sia mai finita, ma abbia solo avuto momenti di sospensione, proprio perché nasceva da necessità imposte da una produzione eccessiva di beni, generata da progressi tecnologici. Così come ci ricorda che l’aveva già detto Friedrich Engels, che lo sviluppo tecnologico avrebbe ineluttabilmente portato a volumi di produzione con cui il mercato non poteva tenere il passo.
Quindi in sostanza La fine del lavoro è la storia, avvincente storia che si legge come un romanzo, di un secolo di capitalismo, compresa la storia del sostegno ideologico che lo sviluppo capitalistico ha ricevuto, ad esempio, dai romanzi di fantascienza che preconizzavano, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, l’avvento della nuova Utopia Elettrica. Una storia che spiega anche come il padronato abbia più o meno consapevolmente, contestualmente con l’inizio del lancio dei prodotti specifici e della pubblicità dei marchi, indotto i lavoratori a passare,  nelle rivendicazioni sindacali, da richieste che miglioravano la qualità della vita e aumentavano il tempo libero, a richieste di aumenti di retribuzione, cioè possibilità di spendere e consumare di più, con danni alla qualità della vita e riduzione del tempo libero, cioè comunque anche se il tempo libero sembra aumentare, lo si passa a lavorare consumando a più non posso anche in vacanza, vedi quanto detto a proposito di Contro il lavoro di Philippe Godard, ovvero il consumismo come natura ed essenza di un capitalismo fondato su uno sviluppo tecnologico rapidissimo e continuo.
Fino al momento in cui lo sviluppo tecnologico non comincia a rendere sempre più inutile il lavoro, e allora i disoccupati aumentano, mentre quelli che lavorano sono sempre più sotto pressione e i capitalisti e i manager, tagliando costi in tutti i modi, guadagnano sempre di più.
Jeremy Rifkin ci fa sapere che già nel 1933 il Senato americano aveva approvato una proposta di settimana lavorativa di 30 ore, ma quando mancava poco all’approvazione anche da parte della Camera il presidente Roosevelt bloccò tutto anche se poi riconobbe di aver fatto un errore.
Ci fu poi il New Deal, ma è tutto da vedere, se al giorno d’oggi si potrà uscire dalla crisi aumentando le possibilità di lavoro non qualificato e le assunzioni di dipendenti statali. Perché anche un deficiente ci può arrivare, che se la gente non lavora la gente non ha soldi e la gente non compera più le cose che comperava prima.
C’è poi la questione delle spese militari, che sono sempre state importantissime per mandare avanti l’economia americana e non solo, come dice anche John Kenneth Galbraith in L'economia della truffa, e come si può vedere anche adesso, che non si sa più cosa inventare per tenere in piedi guerre civili e non, grandi o piccole, ma che comunque mantengano la vivacità della produzione di armi.
Ma il racconto di Rifkin non perde un dettaglio di tutta la riorganizzazione del lavoro che la tecnologia ha portato in tutti i settori delle attività umane, con una parte bellissima, o agghiacciante, sull’agricoltura, e dai campi passa alla catena di montaggio e a come le tecnologie informatiche l’abbiano cambiata e insomma, in questo libro c’è più o meno tutto quel che si può imparare sul lavoro sulla sua storia e sulla sua organizzazione, oltre a una revisione attenta e molto interessante delle balle quotidianamente proclamate dalle statistiche economiche.
E alla fine ci sono sempre meno occupati dappertutto, dall’industria alla distribuzione, e questi pochi occupati, malgrado gli aumenti di produttività dovuti alle nuove tecnologie, guadagnano meno di prima e sono sempre più stressati e la loro vita è invasa dal lavoro che richiede sempre più ore e penetra sempre di più, grazie alle nuove tecnologie, in tutta la vita privata, tecnologie che peraltro Rifkin nel 1995 non poteva conoscere per le mostruosità che avrebbero generato in questo senso. Il risultato è che qualche volta si dà fuori di matto, vedi Social killer di Mark Ames, e Rifkin riporta che dal 1998 al 1995 la frequenza dell’assassinio di datori di lavoro era quasi triplicata.
Rilevante per esempio l’osservazione che adesso che si scrive al computer non c’è più il momento di pausa per togliere il foglio dalla macchina per scrivere e sostituirlo con uno nuovo.
Dopo questa descrizione particolareggiata dello schifo generalizzato, si arriva quindi a quella che per Rifkin è l’unica possibilità di soluzione della crisi, cioè l’impiego di maggiori risorse e di un numero sempre più grande di lavoratori nel cosiddetto Terzo Settore, il settore delle attività sociali, che dovunque va incontro a una crescita continua, che egli mostra come ben più importante di quel che si potrebbe pensare.
L’idea di Rifkin può sembrare una scemenza utopistica, ma è un fatto che non sarà facile uscire da questo pantano senza qualcosa del tipo lavorare tutti e lavorare meno, e che in questa condizione non sarà facile continuare con consumi scatenati e con la cretinata del PIL che deve sempre crescere se no sono guai, che poi sono guai per chi, sono guai per i padroni. E in un mondo in cui tutti lavorano meno, forse ci si metterà a spendere appunto meno soldi in stupidaggini e a darsi una mano l’un l’altro.
Ma secondo me è un fatto, che in uno scenario di questo genere potrebbe essere ragionevole prospettare anche un incremento del fai-da-te economico, vedi per esempio già adesso i GAS, e con l’economia potrebbe toccare anche alla politica, e in una società in cui i poveri sono sempre di più e i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi, non sono certo io a fare la scoperta che la cosiddetta classe media (in Il lato oscuro della Rete di Nicholas Carr c’è una bellissima storia della classe media e dei suoi rapporti con le tecnologie) un po’ alla volta non c’è più, e viaggiano verso l’estinzione la piccola borghesia intellettuale e commerciale e l’aristocrazia proletaria cioè mi sembra indiscutibile che la società sia sempre meno divisa in classi e diretta verso l’uguaglianza, appunto con pochissimi ricchi, tra cui ci sarebbero, e secondo Rifkin in realtà ci sono già, i membri del nuovo monopolio della conoscenza tecnologica e ultraspecialistica che Harold Innis in un certo senso preconizzava in Empire and Communications.
Così possiamo tenere presente quello che dice René Girard in La violenza e il Sacro e vedere in ciò un’ulteriore manifestazione profondamente significativa del processo della perdita delle differenze che potrebbe essere alla base di una crisi sociale particolarmente devastante e violenta, che peraltro Jeremy Rifkin considera molto vicina se non addirittura già in corso.
Ma con René Girard mi piace Marshall McLuhan, che in La galassia Gutenberg ha detto che siamo sempre di più nell’epoca dell’oralità secondaria, e mi piace pensare che in quest’epoca le caratteristiche del pensiero generate prima dall’invenzione dell’alfabeto a vocali indipendenti e poi dalla tipografia a caratteri mobili che attraverso le malefatte di Platone per primo (vedi il Parmenide) e di Aristotele per secondo e di Pietro Ispano per terzo con in coda Pietro Ramo hanno portato a Russell e Whitehead e alla logica quantitativa e all’abitudine occidentale di considerare la realtà per insiemi o classi, e vedi anche il marxismo, mi piace pensare che in quest’epoca di oralità secondaria si stia presentando, con la perdita delle differenze, anche qualche possibilità di veder nascere nuove modalità di pensiero, e forse non torneremo come auspica Philippe Godard in Contro il lavoro, all’agricoltura di sussistenza, ma forse si farà strada una visione del mondo che un po’ alla volta istituirà nuove differenze e nuove classificazioni della realtà, basate su una nuova logica che forse somiglierà, mutatis mutandis cioè probabilmente modificando anche l’abbigliamento intimo, alla logica del totemismo come ce la racconta Claude Lévi-Strauss in Il pensiero selvaggio.
Cioè una logica qualitativa in cui la corrispondenza tra la parola e l’oggetto designato, senza l’intermediario visibile e distaccato della parola scritta, si trova ad essere totale (vedi Walter Ong, Oralità e scrittura cap.4), in cui diventa quindi impossibile la manipolazione e la trasformazione dei significati attraverso falsi universali come il denaro o, già che ci siamo, come il lavoro.
La parola si troverebbe quindi ad essere come dice Lévi-Strauss un operatore a servizio del senso, perdendo la sua distanza dalla realtà e il pensiero potrebbe arrivare direttamente alle cose come ai comportamenti.
Come dire, vedere le cose in un altro modo e trovare forse, in mezzo alle nuove tecnologie che potrebbero permettere a tutti di star parecchio più comodi, anche qualche modo per vivere meglio insieme. (bamborino) 

A pag. XLVIII c’è l’alta pressione invece della pressione alta, a pag. 13 c’è de Sismondi, a pag. 43 c’è una sofisticazione che detto così 
A pag. 124 sarebbe stato il caso di mettere una nota che spiegasse cos’è la linea Mason-Dixon. Per il resto lascio perdere.




Sin dall’inizio la libera iniziativa non fu propriamente una benedizione. In quanto libertà di lavorare o di far la fame, essa voleva dire fatica, insicurezza e paura per la maggior parte della popolazione. Se l’individuo non fosse più obbligato a provare quanto vale sul mercato nella sua qualità di libero soggetto economico, la scomparsa di questo genere di libertà sarebbe uno dei più grandi successi della civiltà. (Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione

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