sabato 27 luglio 2013

Platone


Platone, Parmenide. (Laterza)

Pur non desiderando di spingermi a livelli e dislivelli speculativi fuori dalla mia modesta portata, ho sempre provato nei confronti di Platone sentimenti di profonda ammirazione che mi hanno portato a leggermi ogni tanto un dialogo, nell'ordine delle Opere Complete come si trovano nell'edizione Laterza, e così un po' alla volta sono arrivato a questo Parmenide.
Ammaestrato da Cultura orale e civiltà della scrittura di Eric Havelock, è possibile che io non abbia capito niente né di Platone né di Havelock, ma mi è subito venuto in mente che con questo dialogo ci troviamo di fronte a una dimostrazione dei nuovi poteri che l'invenzione della scrittura ha mostrato nel plasmare il pensiero, portando come dice Harold Innis in Empire and Communications le idee delle cose a differenziarsi dalle cose stesse, generando un dualismo che richiedeva uno sforzo volto alla loro riconciliazione.
Eric Havelock ci mostra come, anche se Socrate non ha lasciato nulla di scritto, già l'argomentazione socratica e l'uso stesso dei concetti non sarebbero stati possibili senza la scrittura, e il completamento di questo processo di costruzione concettuale doveva avvenire con Platone.
E questo Parmenide costituisce secondo me una grandiosa dimostrazione di ciò.
Quindi si parte dal fatto che la scrittura alfabetica, già dalle prime tecniche di scrittura consonantica, ha permesso di isolare fissare e rendere visibili le parole, che così diventano oggetti in piena regola e perdono, vedi Oralità e scrittura di Walter Ong, la loro natura di eventi, che peraltro avevano perduto già con le scritture ideografiche, e a proposito della filosofia analitica segnalo che secondo Derrick de Kerckhove (citato da Ong) questa è stata originata proprio dalla nuova tecnologia dell'alfabeto fonetico a vocali indipendenti.
Come dire che queste cose non sarebbero venute in mente a nessuno, se dopo che le scritture ideografiche e alfabetiche avevano gradualmente dato luogo ai concetti, la completa scomponibilità delle parole nei singoli suoni non avesse generato la possibilità di scomporre ulteriormente i concetti che un po' alla volta sono diventati simboli sostitutivi della realtà, vedi The Meaning of Meaning di C. K. Ogden e I. A. Richards.
In Parmenide in sostanza abbiamo a che fare con un gruppo di personaggi che si impegnano a piantare una grana su che cosa sia e/o non sia ciò che essi chiamano l'Unico (la maiuscola la metto io, Platone non ce la metteva, ma mi sembra che con la maiuscola il discorso sia più chiaro), piantamento di grana che comincia con la lettura di un discorso pronunciato da uno di loro. E a proposito della fissità e della permanenza della parola scritta, faccio rilevare che l'autore del discorso si giustifica quasi immediatamente dicendo che il discorso era frutto del suo ardore giovanile, e che non sarebbe rimasto in giro fino a quel momento, se qualcuno non glielo avesse rubato.
Già dal paragrafo V ci troviamo di fronte a quel miracolo di cui parlano Ogden e Richards, che è sufficiente l'esistenza di una parola, perché da essa si generi l'esistenza di un concetto, che prima della parola in questione nessuno sospettava che ci fosse. Ogden e Richards per fare un esempio nel campo dello studio del linguaggio, attribuiscono uno di questi miracoli generativi a Ferdinand de Saussure, quando si domanda quale sia l'oggetto della linguistica, inferendo così dalla mera esistenza di una parola l'esistenza di un oggetto che la parola rappresenterebbe.
Si parla cioè in Parmenide di generi delle cose, e le cose parteciperebbero dei generi, di cui essendo una parte, prenderebbero su di sé denominazioni da essi provenienti, tipo per esempio una cosa grande, partecipa del genere della grandezza, ovvero si stabilisce che la parola genere e la parola grandezza essendo dotate di significato rappresentano qualcosa. E poi si parla nel paragrafo VIII di come si mettono le cose per il nostro Uno nei confronti della molteplicità e della somiglianza, e di nuovo, un'alluvione di concetti.
Del resto la nascita di un concetto viene ben descritta nel VI, che mostra bene la differenza tra il pensiero pratico dell'oralità e le possibilità di elaborazione concettuale dell'epoca della scrittura, in cui si dice che l'essere schiavo è tale in rapporto all'essere padrone, e che ciò non c'entra con la realtà pratica, in quanto uno schiavo è schiavo non di un padrone in quanto tale, ma di un singolo individuo concreto.
E a proposito del VI, sarebbe interessante una riflessione su ciò che dice Platone degli insiemi o classi, tipo l'insieme degli schiavi, cioè che nella realtà non esistono, e quindi, tra parentesi con una bella botta per Russell e Whitehead, i confronti tra classi avvengono, dal punto di vista della teoria dei tipi logici, su un piano logico che non è quello della realtà.
Nel paragrafo X, vedi supra quanto detto della divisibilità della parola scritta, l'Uno si trova esposto al rischio di dividersi in parti, e tra X e XI, essendo una parola visibile e tangibile, si mette addirittura in movimento, ma se si muove sul posto si dovrebbe muovere intorno al proprio centro, cosa impossibile in quanto l'Uno non essendo costituito di parti non può avere un centro e una periferia, così come è impossibile che si muova cambiando di posto, perché in questo caso nel corso del movimento si troverebbe ad avere una parte ancora in un posto e un'altra parte già nell'altro.
A questo punto mi viene in mente Marshall McLuhan, che dice in La galassia Gutenberg che con la tipografia a caratteri mobili comincia l'epoca del pensiero visivo, e mi sembra che qui ai tempi di Platone di pensiero visivo ce ne sia già parecchio. Pensiero visivo che si era già manifestato, molto tempo prima della mappa del Re Lear di Shakespeare di cui parla McLuhan, con la carta geografica di Anassimandro e che secondo quanto sostiene Havelock si potrebbe già configurare nelle prospettive spaziali del pensiero di Esiodo, che peraltro prepara pensieri come quelli espressi in Parmenide con l'idea di ordine come premessa o metodo di organizzazione della descrizione.
Poi nel XII compare una nuova entità designata da una parola, e anche qui dato che c'è la parola ci deve essere la cosa, che in questo caso è il tempo, e il tempo si presenta anch'esso come dotato di una sua tangibile solidità, in quanto l'Uno ne potrebbe partecipare, e trovarsi quindi ad essere più vecchio o più giovane, e può tale essere solo in quanto partecipa del tempo. Un tempo veramente e concretamente solido e tangibile, tanto che in XIX si discute della possibilità di spostarsi attraverso di esso come lungo un percorso, e si afferma che l'Uno, nel suo cammino dal passato al futuro, non potrebbe saltare il presente. E intanto si è diviso il tempo in parti, compresa una parte piccolissima che sarebbe l'istante, che è una cosa assurda, dicono, che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo.
Il cambiamento del pensiero portato dalla scrittura è cominciato così.
E non si è fermato, perché poco dopo è arrivato Aristotele che dal discorso sulle cose è passato al discorso sul discorso, con la bella trovata delle categorie e soprattutto con il sillogismo.
Con Parmenide mi fermo qui, e volgo lo sguardo al futuro, cioè più o meno ai giorni nostri.
Facendo innanzitutto osservare che per comprendere come sia tutt'altro che facile mettersi nella mente dei Greci, può essere d'aiuto considerare che nel IV si prende il capello come esempio di cosa paragonabile al fango e talmente spregevole che non è detto che ne esista un'idea concettuale, o una Forma, mentre ai nostri giorni i capelli sono concettualmente tanto apprezzati che se ne parla in tutti i modi anche sui giornali e alla tele.
Poi tornando al VI, faccio osservare che Platone afferma, contro il lavoro che in seguito sarebbe cominciato con Aristotele e sarebbe stato sviluppato da Pietro Ispano nelle Summulae Logicales e avrebbe prodotto disastri per secoli, che le classi o insiemi, vedi supra il discorso sullo schiavo, in realtà non esistono, e che non ha senso parlare di esse in rapporto con gli enti reali, che è quello che succede adesso dalla mattina alla sera, con il bel risultato di generare Forme inesistenti e di fare per esempio discorsi sui giovani come se fossero un gruppo omogeneo. Si è già accennato a questo a proposito di La fine del lavoro di Jeremy Rifkin, ma qui vorrei aggiungere qualche considerazione sulle cosiddette scienze statistiche, e già che ci sono dico la mia sulla celeberrima Linda della celebre fallacia di congiunzione o conjunction fallacy di Tversky e Kahneman, per la quale si fa un discorso che non solo ferma e spezzetta il tempo trascurando le possibilità di evoluzione degli individui, ma si fanno appunto confronti tra due classi inesistenti, per calcolare le probabilità che un individuo realmente esistente faccia parte di una classe o di un'altra, e si può fare tutta la statistica che si vuole, ma se uno la Linda la sta corteggiando, farà gran bene a tenere presente che forse è ancora un'attivista politica.
Ma a proposito delle classi faccio notare che nel 1929 Alfred North Whitehead, autore con Bertrand Russell dei Principia Mathematica, scrisse in Process and Reality che “The safest general characterization of the European philosophical tradition is that it consists in a series of footnotes to Plato” (e lascio il testo originale per protesta contro la traduzione italiana generalmente circolante che ha trasformato le footnotes, note a piè di pagina, in note in margine). Whitehead è stato con Bertrand Russell l'escogitatore della teoria dei tipi logici, il cui principio fondamentale è che qualunque cosa presupponga tutti gli elementi di una classe, non deve essere un elemento della classe stessa, ed è proprio vero che Platone aveva già detto tutto il pensiero occidentale, al punto che qui nel paragrafo XXIII afferma che se qualche cosa fosse parte dei molti, fra cui è compresa essa stessa, essa sarebbe senza dubbio parte di sé stessa, il che è impossibile.
Passo poi a Humberto Maturana, e questo Parmenide ci aiuterà a comprendere meglio cosa vuol dire, in Autocoscienza e realtà, quando sostiene che noi in quanto esseri umani esistiamo nel linguaggio. Cioè qui nel XXI troviamo che l'Uno, venendo a prender parte all'essere e abbandonandolo, viene all'essere ed anche muore, cioè quando viene ad essere uno, muore all'essere molti e, quando molti, muore all'essere uno. Cioè il linguaggio di cui parla Maturana e in cui noi ci troviamo ad esistere è questo, il linguaggio scritto, attraverso il quale si possono fare considerazioni di questo genere, che trasforma in oggetto la soggettività e i fatti, tanto che Maturana dice che nella realizzazione strutturale di un essere umano come sistema vivente, un osservatore può distinguere l'intersezione simultanea o successiva di un mammifero, una persona, una donna, un medico e una madre, le quali sono tutte unità composite diverse definite da organizzazioni diverse, che vengono simultaneamente o successivamente conservate nei loro diversi domini d'esistenza. Cioè uno si può disintegrare come studente quando prende la laurea, per reintegrarsi come ingegnere, ma queste disintegrazioni e reintegrazioni avvengono in un dominio linguistico che è quello della descrizione dell'osservatore, e che oltretutto in questo caso segue le categorie aristoteliche, e di nuovo Platone aveva già detto tutto.
Intanto, i cambiamenti sempre più rapidi delle tecnologie della comunicazione fanno il loro lavoro, come la scrittura aveva fatto il suo, e come cambierà il pensiero mentre si va costituendo la Noosfera preconizzata da Pierre  Teilhard de Chardin in Il posto dell'Uomo nella Natura, staremo a vedere. (bamborino)




Pisciare è un’ottima occasione per pensare. Uno dei pochi piaceri della vita. (J. P. Donleavy, Ginger man)

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