Tim Krabbé, Marte Jacobs. (Elliot)
Narrativa olandese.
Si potrebbe dire che è un romanzo tenue. Una storia d’amore delicatissima, raccontata con assoluta semplicità stilistica, storia d’amore che comincia quando lui ha quindici anni e lei ne ha nove. E che prosegue anni dopo attraverso un incontro che diventa una condivisione esistenziale e si arresta prima del contatto fisico. Emile Binenbaum è un poeta, la sua prima poesia è per lei, Marte Jacobs, e lo renderà famoso e lo seguirà per tutta la vita. Il finale tragico è detto già nelle prime pagine e la storia è il percorso che porta a quel momento. Che si abbatte sul lettore come una pietra, forse proprio perché è previsto fin dall’inizio.
Marte Jacobs potrebbe essere un romanzo sulla possibilità.
La realtà della vita di Emile è stata sempre la possibilità di Marte, e lui si è sempre fermato lì, sul limite di una possibilità che diventa al massimo un pensiero di azione immaginata.
Così alla fine del libro può accadere di fermarsi a pensare a tutte le possibilità che abbiamo attraversato, qualche volta rendendocene conto, qualche volta senza che ce ne siamo accorti. Ma la nostra vita è comunque quello che è stata e se vogliamo si può pensare a quello che dice Humberto Maturana, la nostra libertà esiste insieme al più assoluto determinismo, ognuno dei nostri atti e ognuna delle nostre parole sono stati generati ineluttabilmente dagli atti e dalle parole precedenti.
Che è una prima lettura possibile di questo romanzo. Che dopo qualche ora può essere seguita da un’altra interpretazione. Cioè che per Emile Binenbaum semplicemente non è mai esistita la possibilità che Marte Jacobs esistesse fuori dal suo dominio fenomenologico, fuori e diversamente dai suoi pensieri.
In un romanzo dell’Ottocento Marte Jacobs sarebbe stata una persona malata di un amore inguaribile, come Boldwood in Via dalla pazza folla, una determinazione che procede fino alla catastrofe. Il senso di tutto sarebbe stato lì, nell’amore vissuto fino in fondo. Ma nel terzo millennio ci troviamo di fronte a un Emile Binenbaum che ha bisogno di darsi un senso scoprendo che tutta la vita, e la morte, della bambina che aveva incontrato quando aveva quindici anni prendevano senso solo da lui. In una reciproca attribuzione di significato che non è amore, non è possibilità, ma è solo questo, la disperazione di lui, di non potersi trovare una traccia esistenziale, e l’illusione della possibilità di trovarla.
Rimane la possibilità che Emile Binenbaum sia solo un povero stronzetto maschilista, che nella sua solitudine di segaiolo velleitario non riesce a tollerare l’idea che la donna che ha sempre avuto in mente senza trovare mai il coraggio di scoparla sia stata, in tutta la vita e poi anche nella morte, sempre sua e solo sua.
E comunque alla fine ci rendiamo conto che in questo romanzo tenue non c’è niente di tenue né di delicato, e chiudiamo il libro con la consapevolezza delle infinite delicatissime possibilità di devastazione della vita di tutti. (moll)
Nella quasi perfezione del libro a pag. 74 manca un non e purtroppo a pag. 57 abbiamo gli al posto di le.
Narciso non era un egotista... era soltanto uno di noi che, nel nostro infrangibile isolamento, riconobbe, nel vedere la propria immagine, l’unico bel compagno, il solo inseparabile amore... povero Narciso, probabilmente l’unico essere umano che, su questo punto, sia stato sincero. (Truman Capote, Altre voci, altre stanze)
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