domenica 29 settembre 2013

Italo Calvino


Italo Calvino, Le città invisibili. (Mondadori)

Forse il corsivo che apre la parte VII del libro è il punto che meglio rende l’idea generale dell’opera. Che cerca di protendersi in un discorso sullo spazio e sul tempo, sul vero e sul falso, sulle possibilità dell’Essere.
Che tuttavia rimangono poveramente chiuse, o più che chiuse ristrette, nelle scarse possibilità dell’essere altro che un intellettuale di sinistra italiano che se la tira più che può e tenta di scimmiottare le incertezze cosmiche e le pervasive fragilità di Jorge Luis Borges (vedi Finzioni), e si affatica in una continua incapacità di sottrarsi a quella che, come dice appunto Borges, è la più goffa delle tentazioni di un artista: quella di credersi un genio. Come si vede più che bene dalle Lezioni americane.
Calvino scimmiottava Borges, ma probabilmente con maggior successo di pubblico, e Le città invisibili l’hanno letto tutti, e se non l’hai letto sei un ignorante, e in Borges ci si perde e si rimane trafitti come un San Sebastiano da decine di dolorose frecce di dubbi, mentre con Italo Calvino ci si può rinsaldare nella solida certezza di sentirsi, nel leggere queste geniali composizioni, persone di grande cultura e veri intellettuali o meglio, non si può non aggiungere questo must della sfiga del discorso contemporaneo, veri intellettuali e quant’altro.
Così in Le città invisibili gli spazi e i movimenti della ricerca del senso si aprono e si richiudono in una tempesta di frasi vuote che sembra svelino verità profonde e insondabili e in realtà non significano nulla ma ripetono i fasti della vecchissima tecnica per la costruzione di aforismi (vedi Roland Jaccard, Dizionario del perfetto cinico) che consiste molto semplicemente nel ribaltare ovvietà qualsiasi, come la menzogna che non è nel discorso ma nelle cose (pag. 63), o le città troppo verosimili per essere vere (pag. 69), o le città che si sottraggono agli sguardi tranne che se le cogli di sorpresa (pag. 92).
Non si può non riconoscere a Italo Calvino grazia ed eleganza di scrittura, ampiamente sufficienti a rendere Ultimo viene il corvo o Marcovaldo piacevoli pur nel loro vuoto totale.
Ma in Le città invisibili il vuoto riesce a diradarsi ulteriormente, fino a generare, nella pioggia di abilità linguistiche, una continua fatica di concentrazione che fa di questa lettura, un leggere che diventa un percepire caratteri di stampa che si aggregano in parole che a loro volta si attaccano l’una all’altra a formare delle frasi, e si continua a guardare senza in realtà leggere nulla, e il pensiero si stacca continuamente dalla pagina e continuamente vola nei territori dei propri affari quotidiani, o dei ricordi, o dei programmi per domani, mentre gli occhi si fanno pesanti e la noia diventa spossante fastidio.
Le città di Laudomia e di Andria potrebbero rimanere come indimenticabili esempi di queste tensioni verso il nulla, ma immediatamente nel loro nullismo si dimenticano, e comunque qualcosa si porta a casa, perché il premio di questo sforzo leggero verso la leggerezza che Italo Calvino amava tanto (vedi ancora Lezioni americane) e di questa concentrazione che si decentra può essere di sentirsi in poche ore non solo un intellettuale ma addirittura un profondo pensatore, consapevole che, la prossima volta che si farà un volo low cost, d’una città (pag. 44) non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
Con tanti auguri di evitare la domanda, sono o non sono un coglione. (blifil) 




Una delle più detestabili abitudini degli animi lillipuziani è di supporre negli altri le loro stesse meschinità. (Honoré de Balzac, Papà Goriot)

1 commento:

  1. Azzeccata lettura di Calvino. Un vuoto scritto bene. Uno degli scrittori più sopravvalutati di sempre. Non sono MAI riuscito a farmelo piacere. E poi, siccome sono pure ignorante, Le Città invisibili non l'ho letto e non penso di avere voglia di farlo. L'italietta letteraria è piena di letterati da nomenclatura che si credono geni. E' ben nota la stroncatura di Calvino a Morselli. E' proprio vero che ci vuole un genio per riconoscere un genio. Oppure uno senza paraocchi ideologici.

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