John Cheever, Oh città dei sogni infranti. (Fandango)
La scrittura di Cheever ha qualcosa di sfuggente, come se nella narrazione ci fosse un che di incompleto, come se non venisse detto tutto.
Come se non fosse possibile dire tutto. O come se in realtà non ci fosse un tutto da dire, perché la vita è sempre e comunque un non del tutto detto e non del tutto dicibile. Come se in una vita, in tutte le vite, mancasse sempre qualcosa. “Qui stiamo tutti bene”: si chiude così uno di questi cinque racconti di disperazione, dove la catastrofe finale è già contenuta nelle prime righe della storia (vedi soprattutto il terzo, Oh gioventù e bellezza!, il cui inizio è un capolavoro assoluto), perché la catastrofe in realtà è la catastrofe di vivere, di mandare avanti le cose che si fanno e si devono fare tutti i giorni, di diventare dei manichini in mezzo a tanti altri manichini che non si capiscono tra di loro. Essere dei ruoli invece che delle persone, in sospensione distaccata rispetto a una realtà che è lì fuori e che rimane comunque incompleta e incomprensibile. Non del tutto dicibile.
Ci vuole dello stomaco per leggere Cheever, ma non bisogna aver paura di farsi male. Perché quello che dice Cheever, e quello che non dice, arriva come una coltellata solo a quelli che queste cose le sapevano già, e il dolore della coltellata poi si trasforma nel conforto di sapere che non ci sei solo tu, che c’è qualcun altro/a come te. Per gli altri, Cheever è solo uno scrittore che racconta un’America in crisi, che con la nostra vita di tutti i giorni qui e adesso ha poco o niente a che fare. (moll)
Non nutrivo affetti, non credevo in niente. Non era questione di dubitare o di armarsi dell’utile scetticismo di una curiosità razionale, e neppure di saper guardare alle cose da tutti i punti di vista; molto più semplicemente non riuscivo a identificarmi in nessuna buona causa, nessun principio incontrovertibile o idea fondamentale sulla cui esistenza, con più o meno passione, sarei stato pronto a scommettere. (Ian McEwan, Cani neri)
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