martedì 11 novembre 2014

Fëdor Dostoevskij


Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Il villaggio di Stepàncikovo e i suoi abitanti. (Sellerio)

Romanzo comico, opera minore di Dostoevskij.
Né una cosa né l’altra.
Casomai romanzo grottesco, amaramente grottesco, e se c’è della comicità è la comicità tragica caratteristica dei cretini di ogni epoca e luogo.
Opera minore, tutt’altro, anche se René Girard purtroppo non ne parla più di tanto, né in Dostoevskij dal doppio all'unità né in Menzogna romantica e verità romanzesca.
L’importanza di Il villaggio di Stepàncikovo risiede secondo me in due elementi.
Primo, c’è un rapporto di desiderio triangolare di quelli che Dostoevskij mette dappertutto, ma qui direi che la faccenda è un po’ diversa dal solito, perché la condizione della rivalità viene escogitata, per particolari ragioni che non dico per non spoilerare, dal colonnello Rostanjòv, che è il padrone di casa e vorrebbe che suo nipote sposasse la donna di cui è innamorato e che lo ama, e tenta quindi di mettere in piedi il triangolo come condizione di base dell’esistenza propria e della donna, Nàstjengka.
Secondo, qui abbiamo veramente la divinizzazione del mediatore di cui parla René Girard, nella persona del parassita Fomà Fomìč, che peraltro si muove come personaggio centrale in un ambiente in cui tutti si credono più o meno delle divinità, persino i servitori come Vidopljàsov (“Gli uomini saranno dèi gli uni per gli altri”, dice il titolo del Capitolo Secondo di Menzogna romantica e verità romanzesca), e in questa compagnia Fomà vive di continue dimostrazioni di rivalità, rivalità che dissemina intorno a sé. Rivalità bovaristiche che a Stepàncikovo sembrano essere l’aria stessa che si respira e in cui sguazza lo stesso Fomà, che in realtà vorrebbe essere un altro e chiede di essere chiamato Vostra Eccellenza, come Vidopljàsov che vorrebbe cambiare cognome, e la Tatjàna Ivànovna è più o meno esattamente come Emma Bovary, con la differenza non trascurabile che è una irrimediabile deficiente. Così un’altra caratteristica di questo romanzo che ci rimanda a René Girard è la diffusione di quell’immancabile condizione della rivalità triangolare che è la reciprocità. 
Cioè, vedi le due opere citate di René Girard, mediazione interna a tutto spiano.
In sostanza quindi Il villaggio di Stepàncikovo potrebbe essere considerato una specie di prova generale cinque anni prima di Memorie del sottosuolo, dove Rostanjòv si comporta con l’abominevole Fomà Fomìč più o meno secondo lo stile dell’uomo del Sottosuolo nei confronti dell’ufficiale del biliardo, anche se qui è lui a prendere per le spalle il Fomà, e non viceversa, mentre lo stesso Fomà Fomìč come l’uomo del Sottosuolo vive per gli altri, in un continuo sforzo di imporsi agli altri e di richiamarne l’attenzione, ogni volta che essi danno un minimo segno di allontanamento o di distrazione. E a Stepàncikovo la condizione della rivalità triangolare e della mediazione interna è semplicemente come direbbe Kant la condizione dell’esperienza possibile. 
Tuttavia con l’osservazione, condivisibile e non condivisibile, che forse Fomà Fomìč non è esattamente e semplicemente un mediatore interno, ma ha anche, per quel che riguarda il colonnello Rostanjòv, qualche caratteristica del mediatore esterno, cioè di quel che era Amadigi di Gaula per Don Chisciotte. Nel rapporto con Fomà Fomìč il colonnello si trova quindi in una condizione di ambiguità che gli genera una notevole angoscia. Che potrebbe essere un suggerimento di possibile spiegazione delle angosce della modernità, in un mondo che propone come figure di riferimento e quindi come mediatori esterni ogni tipo di personaggi spregevoli come Fomà Fomìč, saltimbanchi spettacolari nel senso di Guy Debord, che li chiama soubrette.
Cioè considerare come eroi irraggiungibili individui qualsiasi potrebbe anche portare a pensarsi, parola forte in questo caso, pensare, come possibilmente equivalenti alla propria figura di riferimento, e qui va al macero non solo la trascendenza, come dice René Girard, ma anche l’idea di Sé.
Insomma la solita grandezza di Dostoevskij nell’aver delineato le caratteristiche di un’umanità futura, che ai suoi tempi avevano appena cominciato ad accennarsi.
Con la solita stragrande grandezza stilistica, perché questo è forse l’unico romanzo che io abbia mai letto in cui non compare nessuna descrizione d’ambiente. Che potrebbe essere un segnale dell’enorme importanza di quest’opera come studio degli sviluppi della mente umana. (bamborino)

A pag. 26 se invece di sé, a pag. 37 chissà cos’è la mezza statura, a pag. 42 dato che non tutti hanno letto Le anime morte si poteva spiegare cosa sono le anime di censimento, a pag. 48 e altrove, cultura è sempre coltura, a pag. 130 c’è bruciapeloa, a pag. 176, 181 e 208 mancano i trattini di inizio del discorso diretto, a pag. 314 nota 33 c’è tazen invece di tanzen.
Ma a pag. 180 troviamo un interessante glie la, e a pag. 233 mi sono commosso per la presenza di un bellissimo, non potete mica più. 




It isn’t till we’re old that we begin to tell ourselves we’re not. (Henry James, The Middle Years)

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