William Howard Gass, Prigionieri del paradiso. (minimum fax)
Per la prima volta su questi schermi, data l’eccezionalità del fatto rilevato, si comincia il post con le note editoriali.
Perché minimum fax è un editore magnifico e meritevole, ma mi sa che qui ci troviamo di fronte ad una vera opera di poteri occulti e forse il pesante cambiamento del titolo Omensetter’s Luck nella traduzione italiana ha portato il romanzo a maledire l’editore, anche se questa volta non è tutta colpa sua, ma finalmente è stato punito per il malvezzo di lasciare i titoli originali privandoli di un articolo, come ha fatto per The Easter Parade di Richard Yates diventato Easter Parade e per A Walk on the Wild Side di Nelson Algren diventato Walk on the wild side e The Magic Kingdom di Stanley Elkin diventato Magic Kingdom. E per la prima volta da quando leggo libri di minimum fax qui ho trovato due refusi 2, dala invece di dalla a pag. 69 e proprio invece di propria a pag. 273.
Ma il demone del libro non si è accontentato.
E così, almeno per quello che mi sembra, se mi posso permettere di dire la mia da povero ignorante quale sono, il demone ha esteso la maledizione fino alle pagine da 7 a 14, in cui Tommaso Pincio ci parla del romanzo. Facendo smemorare l’eccellente prefatore, che solo dal nom de plume si capisce che è well-acquainted con la narrativa americana che più meglio (rafforzativo) acquainted non si potrebbe, e strappandogli via dalla mente ogni possibile riferimento del romanzo di Gass a William Faulkner, mentre gli consente di strizzare l’occhio al lettore anche lui well-acquainted, a me mi (a me mi, altro rafforzativo) ha strizzato le palle, ma il lettore che la sa lunga si sentirà di certo tutto rinfighito per quel che Pincio gli dice di Raymond Carver, come se ne parlasse a una ristrettissima conventicola di sapienti, o saccenti. Riferimento che doverosamente viene fatto in quarta di copertina. Ma forse Tommaso Pincio voleva giustamente ben guardarsi dal dire scontate ovvietà, uno come lui che conosce anche Cartesio.
Ma ancora il demone del libro, crudele vendicativo demone, non si è accontentato.
E così ha strappato via dalla memoria o dalla consapevolezza di Tommaso Pincio non solo William Faulkner, ma anche tutto quello che succede in Prigionieri del paradiso a partire da pag. 307. Quando la fortuna di Omensetter di cui al titolo originale, rapidamente e drammaticamente finisce, facendoci pensare che il titolo probabilmente è sarcastico.
In modo che la prefazione si chiude lasciandoci preparati a leggere una storia di approfondimenti psicologici che in realtà per trecento pagine accorda gli strumenti in vista del concerto della catastrofe finale, che cambia tutto anche dal punto di vista stilistico.
Ma forse il demone non c’entra, e lungi da noi credere che né Tommaso Pincio né alcun altro in minimum fax abbia letto il romanzo fino alla fine, penseremo che non abbiano voluto mettere dello spoiler, come si dice oggidì, e così si è scritto che a Gilean si è prigionieri di un paradiso di parole, e ci hanno lasciato la sorpresa del finale.
Comunque difficilmente si poteva trovare una parola meno adatta di paradiso per riferirsi a Gilean, immaginaria cittadina rurale sule rive dell’Ohio, e il romanzo di William Gass non è affatto paradisiaco nemmeno per il lettore.
Cioè, è una bella fatica.
Ma bella non solo nel senso di fatica cospicua ma anche nel senso di fatica di quel tipo entusiasmante che spesso dà la grande letteratura del Novecento. Vedi appunto William Faulkner, che nel blog c’è qualcosa.
Questo romanzo di William Gass sembra scritto apposta per mostrare il senso profondo della simultaneità e della frammentazione della percezione della realtà dei nostri tempi, e della ricomparsa nella percezione moderna delle modalità tattili caratteristiche dell’oralità (vedi come al solito Marshall McLuhan) che qui si accompagnano alla modalità visiva, per esempio nella scena in cui il reverendo Jethro Furber, in treno, guarda l’ombra della sua mano accarezzare una donna che gli sta seduta vicino. E tutta la prima parte del romanzo è fatta di dettagli insignificanti e staccati e di spostamenti continui tra il ricordo e il momento attuale, per arrivare all’esplosione di simultaneità del pranzo di accoglimento nella città del reverendo Furber, in cui egli ci porta dall’osservazione del momento presente al viaggio in treno al ricordo della sua infanzia e al momento in cui ha deciso di diventare sacerdote, oggetti e persone che subentrano gli uni agli altri e si infilano gli uni negli altri.
Tutto in uno stile di descrizioni rapide e di particolari che scoppiano di luci e di suoni, una scrittura in cui la parola risplende in una maniera che si potrebbe forse definire magica.
Jethro Furber, un titano della solitudine, è il vero centro del romanzo, un uomo che nella sua vita non ha avuto un attimo che non fosse di tormento, e che per questo odia Brackett Omensetter, al quale sembra che vada tutto sempre bene nella più assoluta semplicità. Tormento erotico, tormento nei rapporti interpersonali, tormento nel rivolgersi ai fedeli, tormento nel paragone con i sacerdoti che l’hanno preceduto a Gilean, tormento nel pregare, tormento interiore in tutto.
Fino a quando il figlio maschio di Omensetter, un bambino nato da poco, si ammala. Da qui si corre verso il finale e improvvisamente lo stile cambia. Di colpo il tempo del racconto non è più disgregato e simultaneo ma diventa ordinato e consecutivo. Le meravigliose immagini fatate scompaiono e si passa a una narrazione asciutta e diretta, nel disastro che va verso una fine assurda, un’impiccagione inverosimile, un suicidio o un omicidio che non ha senso in nessuno dei modi in cui lo si potrebbe considerare.
E poi basta. Il romanzo si chiude in una specie di ricomposizione che non ricompone niente. La fortuna di Omensetter, sì, a Gilean ne parlano anche, di questa fortuna, ma ci vuole una vita intera per vedere cos’è, appunto nella vita, la fortuna.
Evitando lo spoiler, si può dire che a Gilean va tutto avanti come prima, ma con il segno di una ferita.
Ma la ferita c’era fin dall’inizio, perché il romanzo in realtà era cominciato con un disastro, e con un uomo che cercava di darsi un senso in una condizione in cui comunque si sentiva completamente fuori posto. (bamborino)
By the way, Prigionieri del paradiso è messo da David Foster Wallace, tra i Non pervenuti: cinque romanzi americani spaventosamente sottovalutati > 1960, uno dei saggi raccolti in Di carne e di nulla (Einaudi), e Wallace dice che fa il paio con Wittgenstein’s Mistress di David Markson come miglior libro americano di tutti i tempi sulla solitudine umana.
Chi dice uomo dice linguaggio, e chi dice linguaggio dice società. (Claude Lévi-Srauss, Tristi Tropici)