Peter Doherty, Grace/Wastelands. (Parlophone)
Che bello ogni tanto trovare una di quelle cose che fanno la differenza. E che bello conoscere qualcuno che merita un regalo come questo.
Perché se nei paesi anglosassoni questo disco incorpora la propria bellezza e qualche possibilità commerciale nel patrimonio di una lunga tradizione, qui da noi troverà difficilmente un numero di ascoltatori superiore a venticinque, e si porrà quindi come un punto essenziale lungo lo spartiacque dello sbifolcamento. Cioè della differenza tra quelli che e quelli che non.
Con questo disco Peter Doherty conferma una genialità del tutto fuori tempo. Sempre che per quel che riguarda la musica del giorno d’oggi non sia già di per sé sufficiente essere fuori tempo, cioè prendersi una bella distanza dalla miseria corrente, per essere geniali.
Nella sua apparente semplicità, Grace/Wastelands non è un disco facile.
Cioè, siamo d’accordo che sono solo canzonette, ma per qualcuno potrebbero non essere, come già poteva accadere per quelle dei Babyshambles, canzonette capaci di conquistare dal primo ascolto, e ciò può rendere necessario applicare il metodo della sedimentazione, che consiste nell’ascoltare il disco molto spesso per un periodo di una o due settimane e quindi lasciarlo a sedimentare nei silenzi della memoria inconsapevole per due o tre mesi, per poi metterlo di nuovo nello stereo: la generale impressione di tranquilla e delicata eleganza che aveva caratterizzato il primo periodo di ascolto farà posto in questo caso a una serie lunghissima di profonde e ingovernabili emozioni e di successivi infrenabili e incontenibili entusiasmi per le rutilanze cromatiche e la vivacità ritmica di questo capolavoro.
Ma se facciamo l’ipotesi che l’invenzione del disco di vinile possa essere per certi versi paragonata all’invenzione della stampa a caratteri mobili, che ha generato sfrenate possibilità di comunicazione e di produzione (vedi nel blog, Oralitàe scrittura di Walter Ong), ci possiamo rendere conto del peso che assume anche nella musica la condizione di una sempre più estesa intertestualità, che nell’opera di Peter Doherty si manifesta con consapevole evidenza.
E quindi il metodo della sedimentazione non sarà certo sufficiente per l’apprezzamento totale del disco, perché ancora una volta le canzonette di Peter Doherty (ma anche Buxtehude in un certo senso faceva canzonette), oltre ad essere ben lontane dallo sfacelo asfittico della musica contemporanea, sono intrise dei colori e degli splendori di molta della musica migliore del Novecento, e chi è dotato dei mezzi necessari per riconoscere nelle sue opere le venature di un secolo di ritmi e di melodie, troverà in questo disco un ulteriore elemento di piacere quasi fisico.
Se già nell’opera dei Babyshambles non mancavano echi intertestuali che in Down in Albion girano sostanzialmente intorno ai Clash (anche se si preparano già le luci di Grace/Wastelands) mentre in Shotter’s Nation si aprono ai Kinks e a Paul Weller e oltre, da Los Bravos ai Doors ai Ramones, e ribadiscono l’importanza di quell’oceano culturale che è The Rocky Horror Picture Show, qui Peter Doherty si allarga da queste citazionalità precise, che avevano portato i Babyshambles a navigare negli anni Sessanta e nelle epoche successive, e fa esplodere la sua genialità in modi e stili che spaziano in universi musicali di tale dilatazione e talmente fuori da epoche definibili, da richiedere all’ascoltatore un’attenzione più che eclettica.
Ovvero data per scontata una conoscenza approfondita dell’opera dei Beatles, e stabilita come altresì indispensabile una conoscenza approfondita dell’opera dei Rolling Stones e tenendo presente che almeno i fondamentali su Bob Dylan e su Roxy Music non dovrebbero mancare, in questo caso non sarà inutile aggiungere anche la conoscenza almeno di Fats Waller, di Frank Sinatra periodo Capitol, di Johhny Cash, di Charles Trenet e di Georges Brassens (meravigliosa, riuscendo a trovarla, la versione in milanese di Nanni Svampa), continuando ovviamente a tener presente i Clash, i Kinks e Paul Weller. Oltre a dimenticare tutta la fighetteria intellettualistica nazionale che vi avesse eventualmente infettato nel corso degli ultimi molti anni.
Ma anche se si arriva a Peter Doherty dal Deserto Incommensurabile dell'Ohio, Grace/Wastelands è comunque un disco bellissimo, un piacere completo e insieme delicato e sostanzioso, e in ogni modo la grande musica è sempre grande musica, e se per qualcuno l’ascolto di quest’opera non è un punto d’arrivo, non si vede perché non potrebbe essere un meraviglioso punto di partenza.
E siccome secondo noi con la musica quando è così bella si va sempre a finire lì, ci mettiamo anche un nostro personale rilievo emozionale, che Sheepskin Tearaway, con Peter Doherty che vi graffia il cuore con la stessa leggerezza con cui graffia le corde della chitarra acustica, è perfetta per guardarsi negli occhi sentirsi il profumo della pelle e darsi qualche bacio in punta di labbra sfiorandosi le mani, mentre Last of the English Roses sarà ottima per qualcosa di più profondo e completo, e tra l’altro è possibile che vi faccia venire in mente l’operazione fatta da Phil Spector con i Ramones per I Love You Baby e allora potrebbe essere bello provare un’operazione contraria, immaginarla più veloce e farle mentalmente un arrangiamento diverso, tipo Blietzkrieg Bop, con la Mosrite di Johnny Ramone che vi brucia le orecchie.
Diamo in chiusura qui un link YouTube per Arcady, canzone deliziosamente sbifolcativa nella sua apparente semplicità, che è il brano di apertura del disco, e magari i venticinque ascoltatori aumentano un po’. (blifil, allemanda)
Di tutte le cose che ricordiamo, il fatto veramente sorprendente è che alcune sono vere. (Michael S. Gazzaniga, La mente etica)
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