venerdì 20 gennaio 2012

Marshall McLuhan

Herbert Marshall McLuhan, La sposa meccanica. (Sugarco)
Ho già detto nel post su Empire and Communications di Harold Innis, che era inevitabile che, una volta che i mezzi di comunicazione avevano assunto un’importanza tale da superare l’importanza dei mezzi di produzione e da sostituirsi in un certo senso alla realtà, qualche mente geniale cominciasse ad accorgersi di quello che stava succedendo, e a parlarne.
E all’università di Toronto, con Harold Innis c’era anche Marshall McLuhan.
Dopo Marshall McLuhan, altri si sarebbero messi al lavoro, e qualcuno avrebbe approfondito gli studi iniziali, mentre altri ne avrebbero semplicemente approfittato, scimmiottando i grandi iniziatori. Perché la conoscenza di La sposa meccanica metterà in grado di capire come tutte le critiche del consumismo in fondo vengano da questo libro e dal pensiero di Marshall McLuhan che però, caso strano, i suoi scopiazzatori, da Jean Baudrillard a Marc Augé, si guardano bene dal citare.
Questo capolavoro della critica sociale parla del mondo in cui viviamo esaminando le sue espressioni culturali più importanti, cioè la pubblicità e i giornali, che di volta in volta ci mostra commentandoli, con un’immagine per ogni capitolo.
Non credo che ci sia da dire altro.
Si potrà scoprire che nel 1951 i contenuti dell’ideologia corrente non erano molto diversi da adesso, e già allora riversava nelle menti della gente le stesse cose di cui le riempie adesso. McLuhan la chiamava educazione commerciale.
Casomai si potrà fare una riflessione, e domandarsi da dove si prendono adesso le idee e gli ammaestramenti etici che ci seguiranno per tutta la vita.
Mamma e papà sono certamente importanti in una prima fase, sempre più breve, in cui non si è ancora visto un televisore acceso. Una mamma e un papà che di solito sono cresciuti anche loro con quantità più che cospicue di educazione televisiva. Cioè di educazione pubblicitaria.
Poi appena si comincia a entrare nei territori del linguaggio si ascolta e si guarda la televisione e come dice McLuhan in Il medium è il massaggio, tutto il mondo diventa maestro. Si entra nel magico mondo della pubblicità in cui in uno spot di un gestore telefonico, ti dicono che siccome l’importante sei tu allora ti hanno preparato una meravigliosa offerta, che naturalmente è uguale per tutti.
Si entra cioè in questo mondo della comunicazione di oggi, in cui tutto significa una cosa e il contrario della stessa cosa.
Stiamo diventando come macchine, ci dice McLuhan in questo libro, qualche anno prima di Marc Augé. Ce lo dice quando l’estensione dei nostri corpi attraverso le macchine non era ancora arrivata ai poteri di simultaneità e di delocalizzazione del telefonino e di Internet.
E questa cosa l’ha spiegata bene anche Nicholas Carr in Il lato oscuro della Rete, mostrandoci come siamo diventati punti nodali della continua costruzione del World Wide Computer.
Questa meccanizzazione delle persone McLuhan ce la mostra nel capitolo che dà il titolo al libro, attraverso una pubblicità di calze di nailon. Le macchine sono divisibili in parti staccabili e anche l’essere umano, in questo mondo per specialisti, viene considerato come un insieme di parti separabili. Nel 1951 non si facevano ancora i trapianti d’organo e non c’erano le meraviglie della chirurgia plastica, ma l’ideologia era già pronta. Perché come McLuhan ci avrebbe poi mostrato pienamente in  La galassia Gutenberg  l’innovazione tecnologica si accompagna sempre ad un movimento di pensiero. E adesso siamo arrivati ai centri per la cura del piede diabetico. 
Forse è per questo che un po’ alla volta i significati si stanno perdendo. Come, in un altro spot, il lusso, che adesso è diventato un diritto. Stravolgendo con ciò il significato del lusso, e questo non sarebbe un gran male, ma stravolgendo soprattutto il significato dei diritti, che infatti si vanno facendo sempre più evanescenti.
Come si fa evanescente fino a scomparire la differenza tra pagare e ricevere in dono, per esempio quando si parla dei campioni sportivi o dei cantanti e degli attori che ci regalano emozioni, anche se non ci regalano niente perché per quello che fanno sono più che ben pagati, e i soldi glieli diamo noi. E magari questo ci aiuta a perdere il senso del valore del denaro e ci aiuta a pagare 300 euro un paio di jeans sporchi di vernice.
Si può stravolgere anche il significato della famiglia, come nello spot che ci dice che l’animaletto che abbiamo in casa è parte della famiglia, che così non è più una struttura di parentela ma diventa un bizzarro insieme di uomini e bestie, fino a quando nella famiglia non sarà ammesso/annesso anche il pc*.  E poi magari lo spot interrompe un programma in cui qualcuno si lamenta che nei nostri tempi si è perduto il senso e il valore della famiglia.
Del resto già si chiama amicizia la condivisione di una localizzazione di Facebook.
Fino ad arrivare alla completa mancanza di senso e di significato dello spot che dice, per una volta parlate di energia, sarà bello scoprire che parlate di voi. Vengono in mente le idee verdi che dormono furiosamente di Noam Chomsky.
Forse i significati si perdono perché le macchine sono portatrici di funzioni ma non di significati. Ed è nella natura delle macchine, di essere tutte uguali.
A questo punto, come dice sempre McLuhan, l’individualismo si fonde con il suo opposto, l’uniformità. E ad essere tutti uguali ci si sente meglio.
Così per affermarsi nella propria specifica unicità magari ci si fa un tatuaggio, che ce l’ha solo lui/lei, un tatuaggio così. Però il tatuaggio ce l’hanno tutti. (bamborino)
* Questo post era stato pubblicato nel nostro blog precedente, il 21 luglio 2011, per celebrare il centenario della nascita di Marshall Mc Luhan. C’è stato da aspettare qualche mese, e la previsione si è avverata, come si può vedere in quella pubblicità in cui in una famiglia si comunica attraverso presentazioni PowerPoint.
Nessun refuso, ma bisogna dire che per quanto riguarda la rilegatura questo è di gran lunga il libro peggiore che mi sia mai capitato in mano, perché a partire da pag. 191 e fino alla fine a pag. 300, si sono staccate tutte le pagine. E io sono uno che quando legge un libro in generale lo lascio come nuovo o quasi. 
Se il libro che stiamo leggendo non ci desta, come un pugno che ci martella il cranio, allora perché leggerlo? Perché possa renderci felici? Buon Dio, saremmo felici lo stesso se non avessimo libri, e i libri che ci fanno felici potremmo, se ve ne fosse bisogno, scriverceli da soli. Ma ciò che dobbiamo avere sono quei libri che ci piombano addosso come la sventura e ci affliggono profondamente, come la morte di uno che amiamo più di noi, come il suicidio. Il libro dev’essere un rompighiaccio per spezzare il mare gelato dentro di noi. (Da una lettera di Franz Kafka, citata da George Steiner in Linguaggio e silenzio)

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