martedì 7 febbraio 2012

Charles Dickens

Charles Dickens, Tempi difficili. (Garzanti)
Secondo Giuseppe Tomasi di Lampedusa questo è di gran lunga il romanzo meno bello di Dickens.
E forse Tomasi di Lampedusa ha ragione. Nel senso che la storia è un po’ piatta e parecchio prevedibile, e anche nel senso che quella che secondo me è la caratteristica principale della scrittura di Charles Dickens, cioè che per ricchezza figurativa un romanzo di Dickens è meglio che andare al cinema, qui di ricchezza figurativa ce n’è, e c’è anche lo stile cinematografico di Dickens che sembra che si muova come una macchina da presa, ma ce n’è meno che in altri romanzi.
Ma Tempi difficili secondo me può essere considerato un romanzo filosofico (è dedicato a Thomas Carlyle, Dickens e Carlyle erano amici e Anthony Trollope li detestava e li ha derisi insieme in L’amministratore, vedi nel blog), e quindi gli possiamo perdonare di non raggiungere le vette delle tenebrose ambientazioni di Casa desolata solo per dirne uno, che basta leggere la prima pagina per perdere la testa, e gli perdoniamo anche l’assenza di formidabili movimenti di macchina come l’inizio di Il nostro comune amico, dove il campo si restringe lentamente fino al primo piano. Anche se comunque anche in Tempi difficili, in confronto ad altri scrittori, bisogna dire che Dickens, da questo punto di vista, è quel Grande grandissimo che è, e le sue descrizioni della città industriale e dei momenti della vita degli operai hanno la solita vivacità e la solita potenza.
Quindi nel mio piccolo cerco di prendere in esame gli aspetti filosofici del romanzo, cominciando dalle questioni esistenziali. Che a parte tutto il bellissimo discorso nell’introduzione di Piergiorgio Bellocchio sulla faccenda del rapporto incestuoso tra Louisa Gradgrind e suo fratello Tom, ci metterei due parole di mio sul fatto che anche questo, come l’Eugenia Grandet di Balzac, è un romanzo in cui per nessuno dei personaggi le cose vanno come voleva e come credeva di poter prevedere, che è poi come le cose vanno più che spesso nella vita di tutti, vedi il lieto fine per modo di dire di Jane Eyre.
Ma soprattutto secondo me c’è osservare la formidabile crisi esistenziale della stessa Louisa, che prende consapevolezza di Sé nel momento in cui, rischiando di scivolare in una storia d’amore scabrosa, prende consapevolezza dell’Altro. Di un Altro che in questo caso non è una presenza domestica come il fratello, al quale è abituata al punto da non distinguerlo quasi da sé, ma di un Altro che si presenta come alterità vera per la prima volta, e la porta a fare la stessa terribile scoperta di sé che fa April Wheeler di Revolutionary Road di Richard Yates. E questa cosa il grandissimo Dickens ce la butta lì in tutta semplicità, con largo anticipo sugli approfondimenti esistenziali della narrativa del Novecento e parecchi anni prima della fenomenologia di Edmund Husserl.
C’è poi il discorso filosofico in piena regola, che certamente è il più forte e consapevole del romanzo non per niente dedicato a Thomas Carlyle, in cui Dickens si occupa di quella macchinetta mentale e sociale che già ai suoi tempi scatenava in pieno il suo funzionamento, la macchinetta ancora attiva dopo quasi duecento anni, che vuole dare una spiegazione di tutto servendosi di cifre e di statistiche.
Che al giorno d’oggi è arrivata addirittura a spiegare in termini di cifre e di statistiche come mai ci sono delle cose che non si possono spiegare in termini di cifre e di statistiche (vedi Daniel Kahneman). E che viene adoperata, oggi come ai tempi di Dickens, per confondere le idee a tutti a beneficio e giustificazione generale di un mondo e di un agire in cui l’unico termine di riferimento è il profitto.
E infatti Thomas Gradgrind, l’uomo delle statistiche, non casualmente ha come grande amico Josiah Bounderby, l’uomo delle menzogne. Così mentre Bounderby verrà sputtanato proprio l’unica volta in cui, per una faccenda di soldi, cercherà un minimo di verità, Thomas Gradgrind avrà da suo figlio Tom, e in una maniera particolarmente dolorosa, la dimostrazione che le statistiche e il calcolo delle probabilità nulla possono e nulla spiegano quando entra in campo quel che distingue gli uomini dalle macchine, cioè la volontà. (bamborino)
A pag. 7 troviamo fase invece di frase, a pag. 37 nostra invece di vostra, a pag. 50 scardarle invece di scaldarle, a pag. 79 c’è una a in più, a pag. 119 abbiamo un avrebbe dovuto essere e a pag. 144 un avrebbe potuto essere, a pag. 129 ammanivano, a pag. 273 manca una a, ma a pag. 163 c’è un bellissimo famigliari con la sua bella g, in quanto riferito alla famiglia, che quella g lì non la mette quasi più nessuno.
Ho sempre pensato che non c’è niente come la vista di un uomo alle otto del mattino, in giacca doppiopetto, la faccia ben rasata, la cravatta annodata e una valigetta sottobraccio, che beve in fretta un caffè a un chiosco arancione mentre i würstel girano già, lustri, su una griglia rovente. Ho sempre pensato che non esiste una faccia come quella di una ragazza che, con il rossetto e le sopracciglia disegnate con cura, esce dalla metropolitana e cerca di arrivare in ufficio in orario. Ho sempre pensato che non c’è niente di più triste che vedere la gente la mattina presto, quando va al lavoro. (Alfred Hayes, Una forma di amore)

4 commenti:

  1. Non avendo mai letto nulla di Dickens, volevo cogliere l'occasione del bicentenario: tu da dove mi consigli di cominciare (escludendo magari Oliver Twist o David Copperfield)? Io avevo pensato a Grandi speranze, o Bartleby lo scrivano...

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  2. "Il nostro comune amico". Senza il minimo dubbio. Ho cominciato quando avevo vent’anni a consigliarlo a chi non aveva l’abitudine di leggere, e da allora credo che Dickens con questo capolavoro abbia portato ai libri un bel numero di persone. C’è tutto quel che si può trovare nella narrativa di questo Grande, con una storia che toglie il fiato, o meglio diverse storie che si incontrano e si lasciano per tutto il romanzo, che è forse la più colossale costruzione di trama di tutti i tempi. Poi c’è anche "Casa desolata", che ha il pregio di essere unito, nell’edizione Einaudi, a un inarrivabile breve saggio di Vladimir Nabokov, e comunque "Grandi speranze" va benissimo, senza dimenticare "La piccola Dorrit". Quanto a "Bartleby lo scrivano", è una lettura imprescindibile, e ci sarà presto un post. (Bamborino)

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  3. Aggiornamento: alla fine ho optato per "Grandi Speranze": A dirla tutta, "Il nostro comune amico" mi ha un pò spaventato come 'mole'... diciamo che come primo libro di Dickens, 900 pagine e passa mi sembravano un tantino 'eccessive'... ;-D

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