mercoledì 15 febbraio 2012

Dietrich Buxtehude

Ulrik Spang-Hanssen,
Dietrich Buxtehude: Complete Organ Works. (Membran Music Ltd.)

Il fatto dei furbi, non è tanto che loro sono furbi, quanto che in generale le strategie della furbezza vengono messe in atto in un contesto in cui il grosso dell’esercito nemico è composto di sprovveduti, per non dir peggio.
Fu così che la sera del 29 maggio 1913 a Parigi, al Théâtre des Champs-Elysées, il grande (sic) Igor Strawinskij rivoluzionò la musica moderna, con il magistrale e redditizio colpo di far eseguire La sagra della primavera davanti ad un pubblico che molto probabilmente conosceva poco la musica barocca (cosa volete che gliene freghi della musica a quelli che vanno a vedere i balletti) e quasi sicuramente non conosceva affatto Dietrich Buxtehude, perché altrimenti a tutti sarebbe venuto in mente che sì, va bene, la composizione di Stravinskij era un bel casino, ma in fondo non era niente di poi così nuovo, vedi appunto Dietrich Buxtehude, per esempio il Praeludium in D (BuxWV 139) e più o meno tutte le altre sue composizioni di questo tipo.
E fu così che a tutt’oggi la quantità di persone bambini compresi che di Stravinskij ha sentito almeno una cosa (vedi colonna sonora del celeberrimo Fantasia di Walt Disney) è certamente di proporzioni non paragonabili con l’esiguo numero di quelli che hanno sentito anche solo il nome di  Dietrich Buxtehude.
Quindi io nel mio piccolo, dato che uno dei massimi piaceri di questo blog è quello di condividere con i nostri lettori tutte le possibili occasioni di sbifolcamento faidatè (la lingua italiana non contempla gli aggettivi frasali e quindi bisogna arrangiarsi e questa mi è sembrata una soluzione migliore rispetto ai trattini o alle maiuscole) che sempre più raramente offre la vita o meglio la sopravvivenza contemporanea, ho pensato bene di fare un post per invitare tutti a gettarsi nel fiume di gioia della musica di Dietrich Buxtehude, e a sguazzarci dentro a più non posso con la soddisfazione, oltre al godimento, della scoperta di un musicista che quasi quattrocento anni fa faceva cose che sono arrivate più o meno intatte fino al genio di Jack White, un altro dei tanti che secondo me valgono parecchio di più del grande (sempre sic) Stravinskij.
Avvertendo subito che con Buxtehude (come con Vatanen, chi è Vatanen, concorso a premi senza premi) non si scherza, in quanto fu inoltre così che nel lontano 1705 il circa ventenne Johann Sebasian Bach un bel giorno piantò tutto, impiego e famiglia, e senza nemmeno chiedere il permesso al datore di lavoro se ne andò a piedi (a piedi) da Arnstadt a Lubecca, quattrocento chilometri (400) per stare qualche mese a imparare da lui, con successivo ritorno a casa a piedi (a piedi) per altri quattrocento chilometri (400), ma oramai dopo essere stato a imparare da Buxtehude nessuno l’avrebbe più fermato e sarebbe diventato Il Più Grande nei secoli dei secoli.
D’altra parte sul rapporto tra la musica di Bach e quella di Buxtehude sarà interessante scoprire che la sua (sua di Bach) composizione più famosa, quella che conoscono anche quelli che non hanno ancora capito se questo Bach era uno scrittore di mezza tacca con la mania dei gabbiani o se era un medico che faceva stregonerie (peraltro efficacissime) con i fiori, la Toccata e fuga in re minore (BVW 565), comincia con un attacco scollato via tale e quale da Buxtehude. Ma che non si dica che Bach copiava, perché all’epoca era una cosa che usava parecchio e quello che conta di una fuga è la fuga e non le poche note di partenza, e quell’attacco Buxtehude se l’è appunto copiato di qua e di là anche da solo, e lo stesso Bach si copiava da sé anche lui, tanto che ha messo un pezzo di una cantata profana nel Weinachtsoratorium, o viceversa.
E chiarisco anche che il post è su questo disco perché io mi trovo a possedere questa esecuzione, anche se il discorso qui riguarda Buxtehude e non questo disco in particolare. Comunque questa versione dell’opera per organo di Buxtehude si può trovare nei negozi Feltrinelli a meno di 12 euro (ebbene sì, 12 euro anzi qualcosina meno), e per sei (sì,6) cd direi che è proprio un buon prezzo.
Quindi per illustrare meglio l’infinita bellezza di questa musica, vengo alla mia visione della sostanziale differenza tra Johann Sebastian Bach e Dietrich Buxtehude.
Cioè Bach è quello che è cioè il massimo degli stramassimi, piacere formale di linea melodica e di ritmo che coinvolgono lo spirito e il corpo con insieme anche una portanza emotiva tremenda, come dire che io non riesco ad ascoltare il Preludio della prima Suite per violoncello o il terzo movimento, (terzo su quattro, e sia sempre maledetto Christopher Hogwood che nella sua peraltro meravigliosa versione lo ha eliminato) del primo Concerto Brandeburghese senza andare in orbita intestino compreso, e per non dire che se ascolto la Mattäus-Passion non ho ancora capito se quella cosa che mi viene quasi subito è una spaventosa voglia di sesso o è un’abominevole disperazione senza nome.
Invece con Buxtehude si sta tranquilli, c’è un piacere che a volte è proprio allegria e anche quando c’è un po’ di tristezza è una malinconia dolce, c’è la linea melodica con un sacco di piccole arie che poi ti restano in testa per mezza giornata, c’è il ritmo forte e variato, ma tutto senza pagare il prezzo emozionale di Bach, si ascolta e anche se ti è appena capitato qualcosa di brutto il caro Dietrich ti dà una mano a sentirti meglio, ti porta via lontano dal peso di tutte le rotture di balle che ti è toccato di sopportare anche oggi, e tutto con una leggerezza squisita e con la forza di un’eleganza che si ripete in ogni minimo tratto di ogni brano, non so, fa star bene anche Vivaldi ma qualche volta ci mette troppo entusiasmo, invece Buxtehude è sempre una cosa un po’ più piccolina, tutta qui e tutta per te, sono tutti pezzi brevi che non cercano mai di spingere troppo e danno solo carezze, senza tirarti mai un pugno.
Mollando però a tutta la storia della musica una gragnuola di sberle fatte di treni ritmici variabili e di balzi melodici sempre sorprendenti, dopo i quali sarà difficilissimo farsi fregare da qualunque pretesa intellettualistica di novità d’avanguardia.
Insomma la musica di Buxtehude è così bella che se fosse una marca di mutande o un’automobile si potrebbe dire che può diventare uno stile di vita.
Per quel che riguarda poi questo disco in sé, innanzitutto c’è da dire che gli organi utilizzati sono tutti opere di grandi maestri e vanno dalla produzione del Cinquecento a strumenti contemporanei di Carsten Lund e Bernard Aubertin, e per quel che riguarda Ulrik Spang-Hanssen io di lui non so niente e non so niente nemmeno di altre esecuzioni dell’opera per organo di Buxtehude, ma secondo me quando uno è bravo in qualche modo la bravura si sente, anche se non si hanno termini di confronto.
Voglio dire che per esempio l’esecuzione di Ralph Kirshbaum delle Suites per violoncello di Bach è moscia, e per accorgersi che è moscia non c’è bisogno di aver sentito la bomba di Yo-Yo Ma o la versione superclassica di Fournier, e nelle Variazioni Goldberg del 1955 di Glenn Gould il soffio di Dio si fa sentire anche per chi non ha mai sentito niente di niente di Bach in nessun modo, così come per avere una potente sensazione di moscio dai R.E.M. non c’è bisogno di aver sentito Bob Seger, la roba fiacca è roba fiacca e basta, o peggio ancora i Concerti Brandeburghesi fatti da Karajan che li ha trasformati in una litania che va bene per il funerale di un rompiballe, con tutto che per Karajan quando fa Mozart e Beethoven io vado matto, ma i suoi Concerti Brandeburghesi sono veramente preagonici anche per chi non ha mai sentito la versione stratosferica di Karl Richter.
Insomma può darsi che io mi sbagli e che ci sia in giro un sacco di roba di Buxtehude fatta molto meglio, ma secondo me Ulrik Spang-Hanssen fa una musica bella vivace e che prende subito e tanto mi basta.
Per finire, un’avvertenza per chi non è abituato alla musica barocca ma si sente determinato a seguire il cammino gioioso dello sbifolcamento.
Di non perdersi d’animo ai primi ascolti, perché come dice Raymond Radiguet i piaceri più intensi si trovano nell’abitudine, e per apprezzare Buxtehude e Bach e il resto del barocco bisogna prima farci l’abitudine, cioè utilizzare il metodo che chiamerei dell’ascolto distratto, che consiste nel mettere su la musica e basta, lasciarla andare e fare le nostre cose che tanto questa è musica che non disturba mai, e si vedrà che un po’ alla volta nasce l’abitudine, e con l’abitudine nascono l’amore e la capacità di sentire e apprezzare anche le minime cose, ci vuole solo un po’ di tempo e di non difficile costanza. Del resto Radiguet questa cosa dell’abitudine la dice per l’amore, e chi gli è capitato sa benissimo che quando con una persona ci si sta davvero bene, si scopre che più ci si conosce e ci si abitua reciprocamente, anche a letto, e più le cose vanno in una maniera entusiasmante in crescendo.
E poi può sempre essere una bella soddisfazione mettersi in condizioni di poter dire, no, Bach non è che ce la faccio sempre, è troppo forte, e anche Vivaldi, troppo enfatico, ogni tanto ho bisogno di Buxtehude.
Con un’avvertenza ulteriore per quel che riguarda l’equalizzazione, perché gli organi sono strumenti particolari, fatti per essere suonati in un ambiente che è quello per cui sono stati progettati, e quindi la voce dell’organo in casa o in macchina può diventare una fangosità sonora rivoltante in cui non si capisce niente. Cioè per fare un esempio, io nella mia WiLL Vi ho un impiantino Blaupunkt di serie con diverse possibilità di equalizzazione automatica, preset, user, classic, rock, jazz e per ascoltare l’organo bisogna trovare quella giusta, che non è necessariamente la classic, e nella mia macchina per questi dischi di Buxtehude la migliore è la preset.
Discorso, quello sul fatto che gli organi sono progettati per suonare nelle chiese, che si apre a quello che secondo me è un problema che merita un po’ di riflessione.
Cioè se è giusto che si faccia sulla musica questo intervento mostruoso che si fa al giorno d’oggi.
Che la musica che era stata pensata per essere eseguita tutta intera in un ambiente vasto con un’orchestra lì presente e per essere ascoltata tutti insieme venga ascoltata nei pochi metri cubi di una stanza o peggio di un’automobile da soli e mentre si fa di tutto o si guida e magari intanto si conversa o suona il telefono e allora non si ascolta più niente, si spegne tutto quando ci gira e poi quando ci gira ancora si ricomincia da lì e via dicendo.
Come oggi, che ho passato la giornata ad ascoltare la sonata per pianoforte D 959 di Schubert, un pezzo adesso e un pezzo dopo, e se non facevo così non la potevo ascoltare, e so anche benissimo che tra un ascolto e l’altro il mio cervello mette insieme tutto e riesce a darmi una visione d’insieme, ma mi domando, Franz Schubert e Maurizio Pollini di questo schifo che ho fatto cosa ne pensano.
Per non parlare di quelle porcherie piccolissime che si portano in tasca, e a questo proposito mi faccio un’ulteriore domanda.
Ovvero cosa può succedere, poco a poco, nella testa di una persona che ha l’abitudine di andare in giro con centinaia o migliaia di brani musicali sempre a disposizione, e per la quale la musica può diventare un accompagnamento costante di momenti dell’esistenza che per tutta la precedente storia dell’umanità hanno avuto obbligatoriamente e naturalmente l’accompagnamento del silenzio, o dei suoni normali della vita che ci si trova intorno.
Domanda che mi faccio non tanto per uno come me, che è nato e cresciuto in un’epoca in cui ciò non era possibile, e che anche se si mette ad andare in giro con le opere complete di Mozart e dei Beatles in tasca, in qualche modo ha dei mezzi mentali per gestire il fatto.
La domanda me la faccio per uno che l’affarino musicale lo adopera dall’adolescenza, e ha la possibilità di dare uno sfondo musicale, ed eventualmente lo stesso sfondo, a tantissimi momenti diversi della sua esistenza: René Girard (vedi La violenza e il sacro) dice che una delle catastrofi del mondo attuale è la perdita delle differenze, e questo lo possiamo vedere tutti i giorni per esempio nella perdita delle differenze della televisione, che ci fa vedere uno dopo l’altro un omicidio e la pubblicità della cioccolata nella stessa scatola luminosa, e credo che anche questa cosa, la musica in tasca, aiuterà gli uomini del futuro a vivere in un appiattimento esistenziale sempre più pesante.  
Poi mi domando se è giusto che si ascolti così anche la musica sacra, e anche nell’opera di Buxtehude ce n’è tanta, mentre si fa di tutto meno che pregare. Anche se comunque la grande musica forse, almeno in un certo o incerto senso, apre la testa a qualcosa di superiore, che magari non è proprio il pensiero di Dio ma potrebbe anche andarci vicino. Come del resto fa tutta l’arte.
Ma queste sono domande senza risposta.
Intanto chi volesse provare a sentire subito una cosa di Buxtehude può cliccare sul link, e salta fuori la bomba del Praeludium in D che ho detto prima, ce n’è più d’uno ma questa mi è sembrata la versione migliore e oltretutto è suonata con un organo di Schnitger, non solo, si viene anche a scoprire un sito bellissimo, che farà la gioia di chi già pratica la musica barocca e di chi ha deciso di sbifolcarsi fino in fondo. (blifil)
Non nella novità, ma nell’abitudine scopriamo i piaceri più intensi. (Raymond Radiguet, Il diavolo in corpo)

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