martedì 27 marzo 2012

Fëdor Dostoevskij, Philip K. Dick

Fëdor Michàjlovič Dostoevskij, Il sosia. (Feltrinelli)
Philip Kindred Dick, Ubik. (Fanucci)
Sia chiaro, e sia fortemente chiaro, che qui non si tratta di fare un paragone stilistico o comunque generalmente letterario, anche se da questo punto di vista Ubik è una delle opere migliori di Dick.
Il fatto è che sono due romanzi in cui non si riesce a capire se si tratta del reale o del fantastico, se l’esperienza attraversata dal protagonista è così o se gli sembra così a lui. E in una realtà che sfugge, in queste due opere compare la più sfuggente di tutte le realtà, cioè compare l'Altro, quella presenza intorno a noi che forse inventiamo in continuazione ma che può anche essere la realtà che ci costruisce continuamente nel nostro essere noi stessi. 
L’analogia finisce qui, ma l’accostamento può andar bene per ricordarsi una volta di più della smisurata grandezza di Dostoevskij che in quest'opera, che è una delle prime cose che ha scritto, è ancora una volta avanti di cinquant’anni se non cento rispetto a tutti gli altri, tranne forse Emily Brontë, e qui la sua grandezza non si manifesta solo nella continua compresenza del reale e del fantastico.
Qui Dostoevskij, oltre a tenersi stabilmente su un registro che è contemporaneamente comico e agghiacciante, riporta le modalità schizofreniche del pensiero del protagonista Goliàdkjn con una profondità e un acume impensabili per la psichiatria dell’epoca, che da questo punto di vista doveva ancora muovere i primi passi (Emil Kraepelin è nato nel 1856, Il sosia è del 1846). Perché Goliàdkjn è indiscutibilmente pazzo, anche indipendentemente dalla realtà o meno di quel che gli succede, e proprio da pazzo sono i pensieri che fa su quella che per tutta l’opera non si capisce se è la realtà o una sua allucinazione, e i comportamenti che ne conseguono, cioè seguono, perché la conseguenza è una conseguenza per modo di dire, cioè da pazzo.
Ma a queste cose Dostoevskji ci aveva già abituato con il principe Myskin (caratteristicamente epilettico e ossessivo) e Nastasja Filippovna (una borderline da manuale) in L’idiota e con il governatore (esordio e sviluppo di demenza in insufficiente mentale) in I demoni. Come ci ha abituato alla folla di strepitosi personaggi della Russia burocratica, dai dirigenti ai piccoli impiegati, che si aggirano intorno al protagonista e alla sua orribile allucinazione, che non sono poi tanto diversi da molta gente che conosciamo,.
Resterebbe da vedere se Il sosia è un romanzo o un racconto lunghissimo, perché più che di una storia vera e propria si tratta di una situazione, e il finale è del tutto indeterminato.
L’accostamento va bene anche per ricordarsi che Philip Dick è un grande, grandissimo scrittore. Il suo è proprio un romanzo, e non è facile mettere Ubik nella categoria di un genere letterario piuttosto che un altro, cioè fantascienza o mainstream come dicono gli anglosassoni.
L’avventura di Joe Chip parte da un fatto e da un’ambientazione che ha certamente a che fare con la fantascienza, ma poi diventa un viaggio meraviglioso e inquietante, con pagine di vera assoluta bellezza, in un mondo tra il reale e l’immaginario, che cambia in continuazione nel tempo e nello spazio fino alla colossale sorpresa finale, che ci potrebbe far venire in mente Merleau-Ponty, con la citazione che accompagna questo post.
Perché in realtà Ubik potrebbe anche costituire un discorso metaforico sul senso della vita e su come emergono, da un guazzabuglio di sensazioni e di pensieri che non si capisce dove trovino origine e organizzazione, la coscienza e il senso dell'io, e la continua costruzione e decostruzione del sé attraverso le mutevolezze della memoria.
E proprio come nel finale di Ubik, anche quando ci sembra di capire in realtà non abbiamo capito niente, e alla fine di tutto il giro bisogna rendersi conto che non si può capire proprio niente e come al solito non si è andati da nessuna parte.
Mentre sullo sfondo, nell’ultima epigrafe, compare la possibilità di Dio. (bamborino)
A pag. 162 de Il sosia c’è un bel gli al posto di le.
Ma a parte il pronome sbagliato, mi piacerebbe sapere perché in Italia Dostoevskij si scrive così. Voglio dire, abbiamo la fortuna di una lingua che si scrive come si pronuncia, e quella j del finale, che non viene pronunciata, cosa la scriviamo a fare. In francese, per esempio, è Dostoevski e basta, come Bukowski. Boh. Un po’ come Bucarest, da dove viene mai, in Romania mi pare che sia Bucuresti e allora, si dicesse Bucuresta capirei, ma Bucarest, se qualcuno mi spiega da dove salta fuori sono contento.
La percezione è dunque un paradosso, e la cosa percepita è essa stessa paradossale: esiste solo in quanto qualcuno può percepirla. Io non posso, neppure per un istante, immaginare un oggetto in sé. (Maurice Merleau-Ponty, Il primato della percezione e le sue conseguenze filosofiche)

1 commento:

  1. dostoevskij si scrive con la "j" perchè segue la traslitterazione scientifica: in russo viene scritto достоевский dove quell'ultimo simbolo si leggerebbe eccome, si chiama i breve e viene utilizzata per creare i dittonghi... dostoevskij l'ultima la pronunci come la i di "ieri". :)

    emy

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