domenica 18 marzo 2012

Georges Simenon

Georges Simenon, L’uomo che guardava passare i treni. (Adelphi)
Comincio dal fatto che tanti anni fa, quando l’avevo letto per la prima volta (vedi qui post su Lettera al mio giudice), questo romanzo non m’era piaciuto. Peggio, non avevo capito niente.
Probabilmente era anche una questione di stile, perché questo è scritto in una maniera profondamente diversa da Lettera al mio giudice, un linguaggio molto più asciutto, a tratti quasi fastidioso nel suo essere così spoglio. Ma lo stile in un certo senso qui va con il contenuto, perché considerare questo romanzo un’opera letteraria credo che sia molto riduttivo.
Diciamo che c’è questo Kees Popinga, agiato dirigente di una ditta che oggi si direbbe che si occupa di logistica della navigazione, serenamente sposato con figli, che di colpo si trova la vita completamente cambiata, e del tutto indipendentemente dalla propria volontà. Così Kees scopre che di fare una vita regolare non ne poteva più, e che in realtà non ne aveva mai potuto. Fin qui siamo nel regno del niente di speciale, sull’impiegato che si scrolla di dosso un’esistenza monotona e parte per l’avventura credo che di romanzi se ne siano scritti a decine.
Ma Georges Simenon è un grande scrittore, e quindi Kees Popinga è un tipo straordinario.
Perché non fa assolutamente niente di avventuroso, cioè all’inizio della sua avventura c’è sì una cosa che va storta e quindi lui si trova ad essere ricercato dalla polizia, ma da lì in avanti tutto quello che fa è semplicemente evitare di farsi prendere. E in questo, nella storia di Kees Popinga che gira per Parigi in incognito e per un po’ si guarda in giro, ma poi risponde alla ricerca da parte della polizia come se fosse la coscienza della propria coscienza, per il lettore si scatena la vertigine di un uomo che ha lasciato una vita vecchia per darsene una nuova, e questa vita nuova che si è dato è la vita di un Doppio di sé stesso che lui sta generando di momento in momento, che è poi il secondo Doppio che ha generato, perché anche la sua vita precedente era una vita falsa e che lui stesso guardava dall’esterno. O dall’interno.
Qualcosa di simile a quello che fa Catherine Morland, la protagonista/eroina di Northanger Abbey di Jane Austen, traghettandosi tra sé stessa e le traslazioni del proprio pensiero.
Insomma in questo romanzo c’è forse più filosofia dell’esistenza e della conoscenza, cioè filosofia e basta, di quanto non ci sia letteratura, c’è una riflessione su cosa siamo, su cosa siamo per noi e cosa siamo per gli altri, e parlarne in questi termini diventa veramente troppo difficile, anche perché si rischia di rovinare questa lettura meravigliosa.
C’è solo da leggere il libro, tenendo presente che tutta la riflessione si inserisce a poco a poco in modo quasi inavvertibile in una trama che diventa gradualmente sempre più coinvolgente e travolgente fino al finale assolutamente imprevedibile e fino alle ultime parole, chiusura magistrale che scoppia sulla pagina come una bomba e riassume in una frase il senso di tutta l’opera. E forse il senso della nostra vita.
In un saggio su Shakespeare, George Steiner dice che Simenon è forse uno degli ultimi ad aver preso un’intera cultura per la sua tela verbale. Georges Simenon è un genio. (bamborino)
Tra chi spera sempre e chi non spera più, io non so chi sia il più debole. (Honoré de Balzac, Il medico di campagna)

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