mercoledì 16 maggio 2012

Adrian Nicole LeBlanc


Adrian Nicole LeBlanc, Una famiglia a caso. (Alet)
Più che un’opera di narrativa Una famiglia a caso è uno studio di antropologia metropolitana, quell’antropologia del vicino di cui parla Marc Augé in  Un etnologo nel metrò, e la popolazione che qui è oggetto di studio è quella dei portoricani di Brooklyn. Un gruppo etnico in cui è abbastanza normale che una donna abbia, a vent’anni, quattro figli da tre uomini diversi.
Adrian Nicole LeBlanc segue da vicino personalmente per dieci anni alcune persone, e il risultato è questo libro di quasi cinquecento pagine, che ci porta nella foresta di una tribù in cui lavorare è un’opzione possibile ma non necessariamente praticabile, in cui la droga e l’alcol sono contemporaneamente la rovina e il mezzo di sussistenza, in cui il parlatorio del carcere è uno degli scenari ricorrenti.
Una famiglia a caso è un’opera che ha dell’incredibile, per la capacità di essere avvincente nel ripetersi incessante di fatti sostanzialmente sempre uguali, e forse il suo fascino deriva dalla sua perfetta aderenza a una realtà che si sta mostrando sempre più diffusa in un mondo, quello del World Wide Web ( Il lato oscuro della Rete di Nicholas Carr), in cui la mappa si sta sovrapponendo al territorio e in cui la scansione delle possibilità è sempre più aleatoria. 
La narrazione è più che frammentata, polverizzata in gesti, dettagli di abbigliamento, rapporti interpersonali parziali e incostanti, magistrali descrizioni d’ambiente semplici e rapide, e a un certo punto della lettura può arrivare la sensazione di trovarsi non tanto in un romanzo o in un saggio di antropologia ma in un ipertesto, dove si passa in continuazione da una schermata all’altra e si aprono finestre momentanee e rinvii esplicativi.
Ipertesto frantumato come l’esistenza spezzettata dei personaggi, che si spostano nello spazio quasi inesistente di poche strade sempre uguali anche quando sono a centinaia di chilometri di distanza, e dove la frantumazione di spazi ripetitivi diventa anche esplosione del tempo, o meglio implosione.
Perché la dimensione temporale, la cronologia finalizzata che secondo Marshall McLuhan in  La galassia Gutenberg dovrebbe essere uno degli elementi costitutivi della mentalità dell’Occidente moderno, qui non esiste, e la chiusura e la ripetitività angusta degli spazi svela la chiusura di una dimensione cronologica inesistente, che si arrotola sulla ripetizione di gesti e giornate senza scopo. Nessuno ha mete esistenziali, nessuno ha obiettivi, e questo romanzo mostra in pieno, come dice Marshall Mc Luhan nel capitolo sugli alloggi di  Gli strumenti del comunicare, una realtà di riduzione estrema dell’orientamento visivo in cui tutti sono profondamente coinvolti in un proprio mondo personale. E forse il senso della continua e indiscriminata produzione di figli è proprio la ricerca di un qualsiasi rapporto sensato con il tempo, come dice qui una donna, che i bambini volevano dire speranza e crescita, non soltanto sopravvivenza, ti proiettavano nel futuro, anche se eri letteralmente prigioniera del passato.
E viene da domandarsi se, nella nostra epoca dell’esplosione e della contrazione dello spazio e del tempo, non sia oramai diventato per tutti questo, il senso del far figli, quello del tentativo di darsi una prospettiva esistenziale e una definizione individuale che non si può più trovare nella realtà di definizioni sociali sempre più nebulose ed elusive e sempre meno proiettabili nel tempo.
Come qui a Brooklyn, dove quel che conta è avere le scarpe pulite, anche se non sai come farai a mangiare domani e dopodomani. 
C’è un solo personaggio, Rocco, che in qualche modo riesce a dare l’idea di avere un pensiero e una visione di sé che si delinea in una prospettiva temporale. Rocco è l’unico che ha deciso che nella vita vuol fare il criminale, diversamente dagli altri che sono delinquenti così, apparentemente perché non trovano di meglio da fare. Può sembrare incredibile, ma Rocco finisce paralizzato su una sedia a rotelle, e se in un romanzo d’invenzione l’autore avesse voluto dare l’idea dell’impossibilità di avere comunque un futuro, potrebbe avere immaginato questo destino metaforico. Ma qui la storia è vera. (bamborino)
Abbiamo un taglio cesareo a pag. 23, se invece di sé a pag. 27, a pag. 31 si rimane sorpresi che qualcuno, specialmente in una terra di macchine enormi come gli Stati Uniti, possa dire che una Mercedes 190 è grossa come l’oceano, a pag. 85 c’é organizzato invece di organizzata, a pag. 241 gli al posto di le, a pag. 279 si dice che una macchina da scrivere scrive stampatello ma si tratta di maiuscolo, a pag. 449 c’è un deficient, ma in tutto il testo i composti del verbo fare sono trattati correttamente e il libro è la solita bellezza di Alet, morbido e compatto e con le foto dei personaggi nell’interno della copertina.
Però mi avrebbe fatto piacere una nota che spiegasse come sono le condanne negli USA, che non capisco cosa vuol dire che uno viene condannato a una pena da trent’anni all’ergastolo, e pianto una grana per la traduzione del titolo Random Family, che secondo me sarebbe stato più appropriato un “Famiglia casuale”, che esprimeva chiaramente l’indeterminatezza e la casualità del concetto di famiglia che hanno in mente i personaggi del libro.




La maternità è una profonda distrazione dalla filosofia, e tutta la filosofia si fonda sulla sofferenza per il passare del tempo. (Cynthia Ozick, Lo scialle)

2 commenti:

  1. Cosa c'è che non va bene in "taglio cesareo"?
    Grazie e complimenti per il blog

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    1. Non va bene che cesareo in questo caso deriva dal latino caedo che vuol dire tagliare e non si riferisce a qualche sconosciuto Cesare, e parto cesareo significa già parto con taglio. Quindi la scorrettezza del taglio cesareo è che sarebbe come dire, taglio con taglio. E grazie per i complimenti.

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