sabato 26 maggio 2012

David Foster Wallace


David Foster Wallace, Oblio. (Einaudi)
Il tempo e l’impegno che si richiedono per la fruizione di un’opera d’arte sono variabili.
Per le opere d’arte figurativa, ad esempio, spesso è questione di secondi o di minuti, mentre per la musica già ci vuole di più.
E poi c’è il denaro. Per dirla tutta, mettersi in casa un capolavoro delle arti figurative e fruirne pienamente richiede pochissima fatica e molto denaro, e i due cd delle Suites per violoncello di Bach costano molto meno, anche se c’è da considerare la spesa per l’impianto di riproduzione, ma la loro fruizione è parecchio più impegnativa. I libri poi costano ancora relativamente poco, non richiedono nessuna impiantistica, ma la fruizione della letteratura è decisamente ancora più impegnativa e per molti più faticosa.
Non credo che il risultato di tutto questo abbia bisogno di commenti. Diciamo solo che i quadri di Van Gogh li ha visti un sacco di gente e probabilmente sono stati oggetto di moltissime conversazioni, e forse quelli che hanno letto Guerra e pace sono di meno, e hanno generato meno conversazioni. 
Oblio non è un libro facile da nessun punto di vista.
Né per lo stile né per il contenuto. Ma è un capolavoro. Dalla prima all’ultima parola (fatta eccezione per Incarnazioni di bambini bruciati, che s’era già visto in un’antologia di qualche anno fa), conferma Wallace come il vero grande scrittore di quest’epoca, e anche qui mi viene in mente di fare un paragone con l’opera che ha reso impossibile scrivere altri romanzi, cioè Guerra e pace. Ai tempi di Tolstoj era ancora possibile scrivere storie in cui le persone si intrecciavano con i fatti, era ancora possibile scrivere della vita e del mondo: già Anna Karenina è un romanzo moderno, di personaggi che si cercano e non si trovano, in un mondo falso fatto di reciproci isolamenti. Dopo c’è stato Čechov, c’è stato Proust, c’è stato Beckett, c’è stata la discesa in inferni sempre più personali e isolati, mano a mano che il mondo e la vita si svuotavano.
Una guerra dopo l’altra. Uno sviluppo tecnologico dopo l’altro.
E alla fine siamo arrivati a Wallace.
Siamo arrivati al vuoto. Siamo arrivati al dolore delle Brevi interviste con uomini schifosi, siamo arrivati alle disperazioni e alle solitudini assolute e alle mancanze di senso di questi racconti faticosi e bellissimi, dove le persone si articolano con gli ambienti in una compattezza addirittura commovente e l’interiore si salda con l’esteriore in una narrazione che non butta via niente, dal racconto si passa al ricordo e poi si torna di colpo al racconto, le fantasie si mischiano ai fatti e ti accorgi che stai leggendo una storia ma non è vero, ne stai leggendo due e forse più di due e tutti i personaggi si portano dentro la storia di una vita e a Wallace bastano pochissime parole per metterla lì tutta.
Meraviglioso il bar del racconto eponimo, Oblio, con la pioggia fuori, di cui sembra che ti entri in casa anche l’odore umido, e ti sembra di essere lì, e di sentire il calore sicuro della stanza, e tutto il libro è così, i rumori te li fa sentire, i corpi te li fa toccare, i gesti che leggi diventano tuoi, e la fatica che hai fatto all’inizio del libro, mentre si procede nella lettura diventa sempre di meno, e ti accorgi che non è diversa dalla fatica che si fa a tirare avanti tutti i giorni in un mondo come questo, e capisci che la scrittura difficile non è difficile, è solo vera. Wallace scrive così perché quello di cui scrive è un tormento silenzioso che si fa respirare dappertutto e che inquina tutto, è la menzogna tranquillizzante che nell’ultimo racconto, che parla di escrementi, chiude il libro sull’immagine di una troupe televisiva impegnata con un problema tecnico, come per dire, siamo nella merda ma va tutto bene, è tutto normale, stiamo solo cercando di non avere problemi.
Wallace racconta la solitudine e l’impossibilità di uscirne, racconta il falso che abbiamo intorno e che ci trasforma impercettibilmente in ciò che non siamo, che sale come un miasma inavvertibile da tutti i gesti e da tutti gli oggetti di tutte le nostre giornate, nella stupidità e nel fastidio di tutte le parole che ci cadono addosso dalla mattina alla sera, e per una volta il nostro orrore quotidiano diventa bellezza. Diventa poesia. (bamborino)
Due parole anche per la bellissima traduzione. A pag. 331 riga 10 viene stupendamente ammazzato un congiuntivo che sarebbe stato cacofonico, il tè è scritto tè invece che thè, e c’è la gioia di ritrovare l’oramai quasi estinta distinzione tra famigliare nel senso di attinente alla famiglia e familiare nel senso di abituale (però a me piace rompere le balle e allora perché la villa dei Moltke è bifamiliare? E forse asma era meglio al maschile).
Alle volte mi viene da pensare che ci avrei guadagnato parecchio, se non fossi mai venuto al mondo. (Nelson Algren, Walk on the wild side)

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