giovedì 10 maggio 2012

Michela Marzano


Michela Marzano, Estensione del dominio della manipolazione. (Mondadori)
Un libro molto adatto a questi tempi di crisi e di incertezze.
Innanzitutto per la gran bella furbastrezza di intitolarlo parafrasando Michel Houellebecq. Che però fa nascere il sospetto che anche Michela Marzano (che ha lo stesso nome) ci prepari una fregatura dello stesso tipo di quelle che tira lui (vedi Le particelle elementari).
E la fregatura c’è, ed è detta tutta fin dall’inizio, cioè appunto fin dal titolo che è perfettamente autoreferenziale.
Vediamo come, senza farla troppo lunga.
Michela Marzano ci parla della fine del taylorismo, ma non prende in considerazione il fatto che il taylorismo riguardava gli operai più che gli impiegati, e il suo libro parla degli impiegati.
Gli impiegati.
Mi ricordo un giorno degli splendidi anni Ottanta, quando sembrava che tutto andasse di bene in meglissimo mentre in realtà la degradazione delle condizioni esistenziali di tutti si faceva sempre più palpabile nel graduale continuo aumento dei negozi di abbigliamento e delle profumerie che portavano all’estinzione di ortolani e drogherie, mi ricordo quel giorno, che ero in metropolitana e vicino a me parlavano due impiegati, e uno diceva all’altro che sì, c’è poco da fare, la produzione si sta spostando verso il Terzo Mondo, e così noi ci metteremo il know-how e loro faranno il lavoro. Tornavo a casa e ci pensavo, e non me lo vedevo bene questo mondo a venire di padroni grassi nel nostro emisfero e di servi poveri e magri nell’altro emisfero.
Già gli operai avevano fatto lo sbaglio di credersi una cosiddetta forza politica, come dicevano i sindacati negli anni Settanta, proprio quando era evidente che il progresso tecnologico li avrebbe resi sempre meno importanti, e adesso gli impiegati si credevano di essere la forza intellettuale del pianeta, proprio mentre molte mansioni intellettuali si stavano trasferendo ai computer.
Ma la lagna per la proletarizzazione della classe media e soprattutto per la inarrestabile dequalificazione dei cosiddetti lavoratori della cultura era già cominciata negli anni Settanta con le canzoni di Giorgio Gaber.
Il libro di Michela Marzano piange sul completo disastro attuale della classe media, con una bella storia dell’ideologia lavorativa del capitalismo. E ci dice un sacco di cose su come va il mondo al giorno d’oggi. Peccato che le stesse cose le abbiano già dette Marshall McLuhan, Herbert Marcuse e Zygmunt Bauman, più o meno tali e quali come le dice Michela Marzano.
Per esempio a proposito dell’estensione del lavoro fino alle pareti domestiche dovuto ai telefonini semplici e a quelli con la posta elettronica, basterà un riferimento a Gli strumenti del comunicare di McLuhan, che già nel 1964 parlava precisamente di un graduale inarrestabile coinvolgimento totale nel proprio lavoro, che dalla condizione di impiego stava passando a quella di ruolo, e a proposito della continua necessità di adeguarsi a sempre più impegnative richieste aziendali diceva che in una società in cui tutte le forme di ricchezza derivano dallo spostamento di informazioni tutte le forme d’impiego stavano diventando apprendistato pagato e che il lavoro come impiego cede il posto alla dedizione e all’impegno comune come nella tribù. Ripeto, Marshall McLuhan nel 1964.
Che una che fa la professoressa d’università a Parigi non ci credo che queste cose non le sa, e secondo me potrebbe almeno indicare qualche riferimento in bibliografia.
Ma il diritto d’autore in fondo è stato solo una delle tante invenzioni dell’Epoca Tipografica, come dice sempre Marshall McLuhan in La galassia Gutenberg e quindi non c’è da meravigliarsi che, mentre ineluttabilmente si avvia a scomparire con buona pace dei legislatori e degli editori che tentano di farne sopravvivere qualche cadaverica reliquia, esso diritto non sopravviva non solo per la musica ma anche per la filosofia e la sociologia.
Così per non farla troppo lunga passo subito a quella che secondo me è un’altra cosa rilevante di questo libro, che adesso che è passato un po’ di tempo se ne può anche parlare con buona tranquillità ma che sembra di nuovo importante in questi giorni.
Cioè la faccenda dei suicidi dei lavoratori francesi, che era diventata uno scandalo di portata europea verso la fine del 2009 con i casi che riguardavano France Télécom.
Ora, il fatto è che tutta questa storia era una balla, e Christopher Caldwell l’aveva detto subito nel «Financial Times» del 18 settembre 2009. Cioè in France Télécom ci si suicidava a una media annuale di 15 suicidi su 100000 dipendenti, mentre la media nazionale di suicidi era di 17,6 suicidi su 100000 persone. Quindi tra i dipendenti di France Télécom ci si suicidava meno che nel resto della popolazione francese.
Non solo. Tutti tranne uno dei suicidi di France Télécom erano intorno ai 50 anni di età, e la frequenza annuale nazionale di suicidio in Francia nella fascia di età dai 45 ai 54 anni balza a 40 su 100000.
Quindi in France Télécom ci si ammazzava molto meno che nella popolazione generale, ma a tutti e soprattutto alle sedicenti opposizioni era andato bene cavalcare la maxiballa. Come anche qui per esempio alle radio di vero pensiero alternativo tipo Radio Popolare. E i dirigenti della France Télécom si sono guardati bene dal tirar fuori queste statistiche, che peraltro erano dati di pubblico dominio per tutti, e se ne sono guardati bene anche tutti gli altri, Michela Marzano compresa.
Domandiamoci dunque cos’è questa roba, cioè questo tipo di manipolazione che anche questo libro porta avanti a cominciare dal titolo, che è la continua manovra di spostamento di attenzione che la Società dello Spettacolo mette regolarmente in opera su tutti gli argomenti che possono contribuire a far nascere dubbi sostanziali, e che origina direttamente e naturalmente dal normale modo di procedere dell’informazione massmediatica.
Ma è anche un’evidenza formidabile di quello che diceva Marshall McLuhan sulla televisione come medium freddo, che quindi richiede e suscita una notevole partecipazione.
Come abbiamo visto poco tempo fa a proposito del naufragio della Costa Concordia (su questo tipo di turismo David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più) con il circo messo in piedi dalla televisione, che praticamente non dava notizie ma chiamava ad una partecipazione e a una condivisione viscerali, con appelli continui all’etica e all’emotività, fino all’intervista con una giovane signora che, avendo riportato dal disastro la fasciatura di una mano, diceva che aveva dolore, ma il suo dolore era soprattutto per le vittime.
Io credo che l’idea del suicidio dia fastidio a tutti, anche se personalmente sono d’accordo con Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Sentenze e Intermezzi 157, che diceva che il pensiero del suicidio è un energico mezzo di conforto con cui si può arrivare a capo di molte cattive notti. E sono d’accordo anche con il Principe di Salina, che in Il Gattopardo dice, finché c’è morte c’è speranza.
E credo che in questo caso i reggicoda del sistema sociale in cui viviamo siano stati felici di potersi mettere d’accordo per trovare le motivazioni del non poterne più di quei 15 su 100000 invece che dei 40 su 100000, e nel mettersi a parlare delle condizioni lavorative degli impiegati che non sono più una categoria privilegiata ma si stanno proletarizzando mentre i proletari si sottoproletarizzano, che così non si parla del resto, cioè di quello che ci tocca beccarci dai giornali dalla tele dalle radio al supermercato al cinema per strada e dappertutto e per esempio non si parla delle slot machine in tutti i bar e dei bambini rincoglioniti dai videogiochi e dei vecchi con badante dovunque e degli obesi dovunque e delle allergie e delle intolleranze e del diabete in crescendo e della pubblicità che non ti molla un momento e dei Gratta e Vinci anche negli uffici postali insomma delle condizioni dell’esistenza in generale.
E poiché la letteratura ci dice sempre qualcosa di più dei sociologi furbi, per le ordinarie sofferenze delle esistenze normali, senza dimenticarmi di Anna Karenina, faccio riferimento alla storia di Gertrude Lockhart in Lo scandalo Whapshot di John Cheever, una madre di famiglia che a partire dall’intasamento dello scarico di casa sua si dà all’alcol e agli uomini fin quando si impicca per un guasto al riscaldamento, e mi viene in mente uno psichiatra, razza non tanto dissimile dai sociologi furbi, che ad un convegno disse che il suicidio per motivazioni esistenziali gli sembrava improbabile per un piastrellista.
Del resto in questo modo Michela Marzano non fa che ripetere un’operazione di esorcizzazione del mostro del suicidio, che vuole vedere in questo gesto essenzialmente un’espressione di debolezza individuale e non un atto di ritiro dal mondo, vecchio come il mondo e sostanziale da sempre a tutte le problematiche dell’essere umano, come dice Albert Camus nell’incipit di Il mito di Sisifo che è riportato come citazione nel post su Il soccombente di Thomas Bernhard.
Se qualcuno si ammazza bisogna trovare un motivo specifico e così ci mettiamo tutti il cuore in pace, ma il motivo specifico in realtà è lo stesso tutte le volte, e cioè che quel qualcuno semplicemente non ce la fa più a vivere. E nel Sistema del Villaggio Globale di Internet in cui l’uomo, a differenza dei tempi del taylorismo non è più considerato come lavoratore ma come consumatore (vedi Il lato oscuro della Rete di Nicholas Carr), in questo Sistema l’infelicità immotivata, o meglio motivata dal tutto di tutti i giorni, non può essere ammessa né riconosciuta.
Cioè altro che ideologia manageriale e coaching e altre fole di questo genere, che gli operi della Tenaris Dalmine non ne hanno nemmeno mai sentito parlare.
Oserei poi suggerire a proposito degli attuali suicidi cosiddetti motivati dalla manovra economica di Mario Monti, di leggere statistiche più accurate di quelle di chi parla di Premiata Macelleria Monti, peraltro facendo riferimento a dati precedenti le imprese del governo attuale, cioè dati del 2009 con 2986 suicidi. Infatti i suicidi in Italia furono 3096 nel 2000, 3361 nel 2003, 3265 nel 2004, e se si vuol leggere altro e meglio delle mie povere cose c’è in Rete «Wired» che trovate a questo link qui.
Quanto poi ai ridicoli verbalismi di attribuzione di responsabilità suicidarie alla crisi e alle liti verbalistiche su chi abbia le immaginarie colpe italiane di una crisi mondiale, senza tirar fuori John Locke ci possiamo accontentare (sic) di Jorge Luis Borges e del suo racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius in Finzioni, che propone una critica sottilmente elegante delle scemenze del pensiero (sic) corrente, critica non meno affilata del rasoio di Occam.
Tenendo presente che se si comincia con l’accusare Mario Monti dei suicidi degli imprenditori, si rischia di trovarsi a incriminare per omicidio colposo le donne amate dai suicidi per amore.
E quanto alle manovre di manipolazione e di spostamento di attenzione, oso suggerire uno sforzo di pensiero che ci aiuti a un minimo di distacco dalla latrina dell’informazione quotidiana, alternativa e non. (bamborino)
Percuotere il tubo non punisce l’idraulico. (William H. Gass, Prigionieri del paradiso)

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