domenica 29 luglio 2012

John Kenneth Galbraith


John Kenneth Galbraith, L’economia della truffa. (Rizzoli)
Libretto terribilmente fastidioso.
Talmente fastidioso che è preceduto da una prefazione di stampo giornalistico che si sforza di smorzarne gli acumi critici, e si sforza per un numero di pagine che è più o meno come una metà del testo (43 contro 100), tanto che, nel dire qualcosa sullo scritto di Galbraith, non può essere trascurata.
Nel suo sforzo, la prefazione arriva a dire cose tipo che la distribuzione dei giornali gratuiti e la vendita dei farmaci generici a prezzi nettamente inferiori a quelli delle multinazionali farmaceutiche definiscono una società che sta superando l’immagine stereotipata della grande impresa, evidentemente nella convinzione che industrie come la Teva, che produce ogni sorta di farmaci generici per tutto il mondo e in tutto il mondo, non siano colossi multinazionali ma fabbrichette artigianali, e nella convinzione che i giornali siano distribuiti gratis a cura di piccole tipografie indipendenti e che siano aspetti di una rivoluzionaria politica di migliore informazione del cittadino e non della solita macchina della persuasione pubblicitaria, nello sforzo di smentire Galbraith quando dice che sono balle, che nell’economia di mercato l’acquirente è sovrano e decide lui.
C’è poi la felicitazione e l’inno alla libertà per come il nuovo capitalismo permetta a uomini nuovi di costruire dal nulla grandi imprese, che non è una novità e casomai era una cosa vera per il capitalismo vecchio, e c’è l’elegante far finta di non accorgersi che da decenni (decenni, non decadi) si sta privatizzando tutto da tutte le parti, ma soprattutto la prefazione va all’attacco del discorso di Galbraith sulla burocrazia, e quindi comincio a parlare anche del libro.
Che sembra un libro di economia o sull’economia ma in realtà è quasi un libro di filosofia del linguaggio, in quanto prende le mosse dalla manovra linguistica che ha portato a cambiare il nome del capitalismo che è diventato economia di mercato, e la truffa in questo caso è che si vuole far credere che al mercato comanda chi compra, e quindi mostra come le truffe attuali e passate, che nel titolo originale sono chiamate truffe innocenti, traggano la loro origine dal fluire di disattenzioni del linguaggio.
Cioè mostra come nelle sue applicazioni economico-politiche la moderna Fallacia Ipostatica sia un vero Sotterfugio Ipostatico, cioè l’utilizzo di sostantivi astratti che portano a credere nell’esistenza reale di cose che non esistono ma sono concetti immaginari o ipostasi o reificazioni (vedi C. K. Ogden e I. A. Richards, The Meaning of Meaning), faccia i suoi bravi (sic) danni nel far credere per esempio che l’economia di mercato sia qualcosa di diverso dal vecchio capitalismo e per fare un altro esempio nello spacciare per pubblico quel che in realtà è privato, come le decisioni della politica militare americana, che dipendono dalle necessità di guadagno dei produttori di armi, come già lamentava Dwight Eisenhower, generale e presidente degli Stati Uniti, .
Così il Sotterfugio Ipostatico riesce ad ingannare tutti e riesce a fare anche di più e meglio associandosi al Sotterfugio Utraquistico, vedi sempre The Meaning of Meaning, quando si adopera la parola lavoro per definire contemporaneamente cose tra loro completamente diverse. E se a questo proposito John Kenneth Galbraith ha le idee chiare, e parla di cose ben pratiche, nel tentativo di dargli torto a pag. 31 la prefazione cade nel tranello della contesa linguistica e trasforma il serioso libretto in una lettura esilarante, quando parla di progressi nel campo della teoria e propone una miscela di ipostasi inventando il sintagma “lavoro tradizionale” che chissà cos’è ma qui passa per una cosa confrontabile con il “capitale umano” e prosegue ipostatizzando le conoscenze, la produzione, i fattori produttivi, le capacità.
Quanto al discorso di Galbraith sull’organizzazione burocratica del capitalismo attuale, la prefazione non tiene conto di quanto detto a questo proposito da Zygmunt Bauman e da Hannah Arendt, che ci hanno spiegato che la burocrazia moderna consiste nell’assegnare a ciascuno una parte del lavoro producendo una condizione di sostanziale distanza tra ogni singolo atto di partecipazione al risultato finale, e il risultato finale stesso, nel complesso di una organizzazione in cui ognuno è responsabile della propria parte di lavoro, e nessuno è responsabile della totalità, con la responsabilità tecnica che prende il posto della responsabilità morale, che è proprio quello che dice Galbraith, quando spiega che oramai il capitalista con un nome e una faccia, tipo Henry Ford o John D. Rockfeller, non esiste più.
In più avremo modo di riflettere sulle predizioni economiche delle agenzie di rating, che quando non sono imbrogli veri e propri sono solo moderne manifestazioni del potere magico delle parole, anche quello spiegato in lungo e in largo da Ogden e Richards.
E come se non bastasse, John Kenneth Galbraith è uno dei pochi che sono consapevoli che la Repubblica Popolare Cinese non è affatto un paese comunista, e ci spiega (in accordo con Jeremy Rifkin in La fine del lavoro) che le variazioni dei tassi d’interesse non servono a niente, e che il PIL è un’altra ipostasi cioè una balla di pura invenzione (vedi anche Niall Ferguson, Ascesa e declino del denaro), oltretutto continuamente variabile secondo gli interessi di coloro che producono le merci che lo compongono.  (bamborino)
La vita è breve, tutti dobbiamo mentire. (Cynthia Ozick, Lo scialle)

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